Alla Pergola dal 27 febbraio al 4 marzo “La classe operaia va in Paradiso” dal film di Petri. Claudio Longhi riflette sulla recente storia del nostro Paese

Alla Pergola dal 27 febbraio al 4 marzo “La classe operaia va in Paradiso” dal film di Petri. Claudio Longhi riflette sulla recente storia del nostro Paese

Alla sua uscita nelle sale cinematografiche nel 1971, La classe operaia va in paradiso di Elio Petri riuscì nella difficile impresa di mettere d’accordo gli opposti. Industriali, sindacalisti, studenti, nonché alcuni dei critici cinematografici più impegnati dell’epoca, si ritrovarono parte di uno strano fronte comune contro il film. E la pellicola non ha così avuto una grande fortuna in Italia, nonostante la Palma d’Oro a Cannes e la galleria di stelle presenti, fra cui Gian Maria Volonté, Mariangela Melato e Salvo Randone.

A quasi cinquant’anni dal suo debutto sui grandi schermi, il regista Claudio Longhi ha scelto di tornare allo sguardo scandaloso ed ‘eterodosso’, ferocemente grottesco, del film di Petri, per provare a riflettere sulla recente storia del nostro Paese, con le sue ritornanti accensioni utopiche e i suoi successivi bruschi risvegli. Al Teatro della Pergola da martedì 27 febbraio a domenica 4 marzo.

“Sulla coda del film, in una breve e significativa scena, l’operaio Lulù Massa – spiega Longhi – girovaga per la sua casa catalogando a uno a uno gli oggetti lì presenti e recitando una personale, e straniante, litania domestica: a ogni cosa risponde un costo, a ogni costo delle ore lavoro. Mutatis mutandis, nella sua concisione quella scena, dalle tinte bluastre e dai toni buffi, parla molto alla (e della) nostra epoca dominata dal consumo ultraveloce – espresso e spersonalizzante grazie al potere della rete –, affetta da una sindrome bulimica permanente mentre, al contrario, è risucchiata in vuoto ideologico spinto”.

La vicenda dell’operaio Lulù Massa, stakanovista odiato dai colleghi, osannato e sfruttato dalla fabbrica BAN, che perso un dito scopre per un istante la coscienza di classe, si intreccia qui con le vicende che hanno accompagnato la genesi e la ricezione contestatissima del film. Lo spettacolo, infatti, scritto da Paolo Di Paolo, è costruito attorno non solo alla sceneggiatura originale di Elio Petri e Ugo Pirro, ma anche ai materiali che ripercorrono la loro officina creativa, a come il film è arrivato al pubblico di ieri e di oggi, e a piccoli capolavori della letteratura italiana di quegli anni.

Infatti, la compagnia, formata da Donatella Allegro, Nicola Bortolotti, Michele Dell’Utri, Simone Francia, Lino Guanciale, Diana Manea, Eugenio Papalia, Franca Penone, Simone Tangolo, accanto ai grotteschi personaggi della pellicola alterna sulla scena lo sceneggiatore e il regista stessi, qualche spettatore e alcune figure curiose e identificative della nostra letteratura a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. Il tutto, poi, è intessuto dentro le seducenti e algide geometrie musicali di Vivaldi, rielaborate da Filippo Zattini originalmente per l’occasione e ‘rotte’ qua e là da canzoni dolci e amare dell’Italia alla fine del Boom eseguite dal vivo da tutti gli attori. Le scene sono di Guia Buzzi, i costumi di Gianluca Sbicca, le luci di Vincenzo Bonaffini, i video di Riccardo Frati. La produzione è ERT – Emilia Romagna Teatro Fondazione.

“Il cinema è un linguaggio eminentemente visivo – interviene Claudio Longhi – mentre il teatro che ho sempre praticato usa fondamentalmente la parola. Noi abbiamo agito molto sulla drammaturgia, trasformando alcune sequenze del film in racconti, quindi in monologhi, più che in dialoghi diretti. Spazialmente abbiamo utilizzato degli elementi scenici, come un nastro trasportatore, che ci consentono di alludere alla catena di montaggio e di restituire la dinamica dei movimenti in macchina. E poi uno schermo, su cui vengono proiettate delle immagini storiche, alcune sequenze fisiche non solo del film, agisce quasi da diaframma, come una macchina fotografica o una cinepresa, aprendo varie possibilità nella narrazione”.

Il film di Petri ha il merito di aver provato ad abbozzare una narrazione dell’Italia attraverso il lavoro, oltre i furori utopici degli anni febbrili che seguirono il Sessantotto. Un combinato di stili, con una sceneggiatura che qua e là strizza l’occhio alla commedia all’italiana, ma si lascia tentare, nel suo impasto cromatico, dall’estremismo espressionista, scandito dalla musica dura e pervasiva di Ennio Morricone. Ora lo spettacolo teatrale intende riflettere su quanto quell’affresco grottesco immaginato da Petri nel 1971 sia più o meno distante da noi. Un tempo, il nostro, post-moderno e post-ideologico, che fatica a riconoscere in modo netto i tratti di una qualsivoglia ‘classe operaia’, dispersa e nascosta dietro gli innumerevoli volti del lavoro ‘flessibile’.

“Si è svuotato il senso stesso della parola ‘rivoluzione’ – conclude Longhi – quindi il Paradiso che adesso si prospetta, forse, si può identificare con una promozione a una condizione borghese di fatto irraggiungibile. Però, quello che voglio aggiungere, è che il film ritrae una condizione di angoscia profonda e invece lo spettacolo ricalca il film, ma senza perdere quel senso di divertimento che credo sia condizione imprescindibile di ogni esperienza teatrale”.

Salvo Randone nel film di Elio Petri

Intervista a CLAUDIO LONGHI

di Angela Consagra

Che cosa significa mettere in scena oggi rispetto agli anni Settanta – epoca di uscita dell’omonimo film – un’opera come La classe operaia va in Paradiso?

“Credo che mettere in scena oggi La classe operaia va in Paradiso significhi riaprire una fonte di discussione intorno ad un tema cruciale come quello del lavoro, una delle emergenze della nostra contemporaneità. Non dobbiamo dimenticarci che l’Italia, come recita la nostra Costituzione, è una Repubblica fondata sul lavoro. E le domande che dobbiamo porci riguardano proprio l’assenza del lavoro: cosa succede quando in un Paese il tasso di disoccupazione, soprattutto giovanile, è molto alto? Cosa accade quando il lavoro diventa precario? E cosa dobbiamo fare in termini di sicurezza sui luoghi di lavoro che è una questione solo apparentemente risolta, anche alla luce anche di tutti i più recenti fatti di cronaca? Al di là delle posizioni che singolarmente ciascuno di noi può intraprendere intorno a questo dibattito, è chiaro che la messinscena di una classe operaia assume proprio in maniera più generale un ruolo fondamentale. Si tratta sicuramente di una realtà molto lontana da noi: La classe operaia va in Paradiso è un film del ’71, quindi il periodo è cambiato: alcune cose permangono, mentre altre addirittura non esistono più. Concentrarci su quella fase storica serve a riaprire un fuoco di discussione, anche avvalendosi di un’ottica della distanza: il rischio spesso, infatti, è quello di rimanere troppo schiacciati dalla contemporaneità che si sta vivendo e allora accade che non si riesca a comprendere bene ciò che sta succedendo intorno a noi. Guardare invece ad un mondo che risale a più di cinquant’anni fa e ad una dimensione che sembra essersi chiusa alle nostre spalle, ci induce forse a riflettere con maggiore lucidità sulla realtà che ci circonda. Oggi c’è ancora una coscienza di classe? La classe operaia può andare in Paradiso? E quali saranno le condizioni di questo Paradiso? Intorno a queste tematiche ci siamo interrogati e abbiamo constatato che il pubblico si è messo in discussione insieme a noi”.

Alla luce delle vostre ricerche, come si possono descrivere oggi gli operai?

“Oggi si tende ad usare sempre meno nel campo del lavoro la parola ‘operaio’, ormai questo tipo di lessico appare superato. Ma il fatto che questo termine, per certi aspetti, sia andato fuori corso non significa che sia superata anche la condizione essenziale che questo vocabolo designa. Il fatto che l’assetto del nostro sistema economico sia profondamente mutato è qualcosa di innegabile: nel corso degli anni abbiamo assistito ad una dilatazione del settore terziario in chiave sempre più avanzata, così siamo spinti ad archiviare l’aspetto dell’industria in senso stretto. Però se parliamo, per esempio, con i lavoratori dell’Ilva, credo che loro possano spiegare molto bene cosa sia un operaio… Ed inoltre attualmente esistono delle condizioni di lavoro collegate alle imprese commerciali che di fatto, se pur sotto mutate spoglie e con diversi assetti giuridici, continuano ad alludere alla condizione di un lavoro operato da chi non detiene il controllo del mezzo di lavoro. Questa è la condizione operaia: si è parte del proletariato, quando si è ricchi solamente della propria prole”.

Dal punto di vista della regia, come si è realizzato il passaggio dal film ad una trasposizione teatrale?

“Tutte le volte che si prova a trasportare un film in una versione teatrale ci si scontra con varie difficoltà perché il cinema è molto diverso dal teatro. Si tratta di un linguaggio eminentemente visivo, mentre il teatro che ho sempre praticato usa fondamentalmente la parola. La forza di quel film è legata anche alle immagini: penso, per esempio, all’ingresso degli operai in fabbrica nella neve o a certi primi piani di Volonté… Nel momento in cui ti ritrovi a raccontare in teatro certe immagini devi necessariamente inventarti altri modi per restituire il racconto originario. Noi abbiamo agito molto sulla drammaturgia, trasformando alcune sequenze del film in racconti, quindi in monologhi, più che in dialoghi diretti. Spazialmente abbiamo utilizzato degli elementi scenici, come un nastro trasportatore, che ci consentono di alludere alla catena di montaggio e di restituire la dinamica dei movimenti in macchina. E poi uno schermo su cui vengono proiettate delle immagini storiche, alcune sequenze fisiche non solo del film, agisce quasi da diaframma come una macchina fotografica o una cinepresa aprendo varie possibilità nel racconto”.

E quale Paradiso spetta infine agli operai?

“Il film La classe operaia va in Paradiso nasce in anni in cui la passione ideologica è fortissima: termini come rivoluzione oppure, se pensiamo in maniera ancora più cruda, lotta armata sono all’ordine del giorno. Il film dà una risposta piuttosto terribile a questo orizzonte rivoluzionario: lo sfondamento del muro che chiude il film in un sogno appare come la metafora stessa dello strappo rivoluzionario ed è anche un aspetto che ricorda il Calderón di Pasolini. Quando si sfonda il muro, dall’altra parte c’è soltanto la nebbia in cui inevitabilmente ci sentiamo persi. La profezia del film è dunque davvero terribile, ed è la stessa che si sta avverando oggi: la pulsione rivoluzionaria si è completamente azzerata perché manca una coscienza di classe e un approccio di questo genere alla realtà. Si è svuotato il senso stesso della parola ‘rivoluzione’, quindi il Paradiso che adesso si prospetta forse si può identificare con una promozione a una condizione borghese di fatto irraggiungibile. Però, quello che voglio aggiungere, è che il film ritrae una condizione di angoscia profonda e invece lo spettacolo ricalca il film, ma senza perdere quel senso di divertimento che credo sia condizione imprescindibile di ogni esperienza teatrale”.

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27 febbraio – 4 marzo | Teatro della Pergola

(ore 20:45; domenica ore 15:45)

ERT – Emilia Romagna Teatro Fondazione

LA CLASSE OPERAIA VA IN PARADISO

liberamente tratto dal film di Elio Petri (sceneggiatura Elio Petri e Ugo Pirro)

di Paolo Di Paolo

con Donatella Allegro, Nicola Bortolotti, Michele Dell’Utri, Simone Francia, Lino Guanciale, Diana Manea, Eugenio Papalia, Franca Penone, Simone Tangolo, Filippo Zattini

scene Guia Buzzi

costumi Gianluca Sbicca

luci Vincenzo Bonaffini

video Riccardo Frati

musiche e arrangiamenti Filippo Zattini

regista assistente Giacomo Pedini

assistente alla regia volontario Daniel Vincenzo Papa De Dios

regia Claudio Longhi

Durata: 2 h e 30 minuti più intervallo