Monolite monacale in mono-ambiente. “Il nome della rosa” in traduzione scenica

Il nome della rosa

Monolite monacale in mono-ambiente

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Per non avventurarsi impreparati o sprovveduti verso un “Nome della rosa” che è poi ‘nume’ di un’evocazione riflessa nei tempi e stilemi di un drammone a fosche tinte (misterico e tenebroso quanto potrebbe esserlo un B-movie degli anni 50\60, che pur ospitavano ‘grandi artigiani’ come Bava, D’Anza, Fulci, ed in Francia un paio di blitz del Godard giovane) è bene azzardare, in elementare sintesi,  l’erudita, ‘divertita’ complessità dell’opera di Eco, cui ovviamente si rifà l’ardimentosa drammaturgia di Stefano Massini, drammaturgo ormai a rischio di auto-inflazione.

Non avendo pretesa alcuna di improvvisarci esegeti in letteratura, lasciamo che i suggerimenti in materia giungano dallo studioso e critico Alessandro Cane. Secondo cui “I piani di lettura storica presenti nel romanzo, i personaggi e le forze che vi si  contrappongono rappresentano  due epoche e due mentalità destinate a fronteggiarsi: da un lato il medioevo più antico – col suo fardello di dogmi, preconcetti e superstizioni, ma anche intriso di una profonda e mistica spiritualità – dall’altro, il nuovo mondo che avanza”. Verso nuovi stimoli di curiosità e apprendimento corrispondenti al   “recupero” di un offuscato e rimosso anfratto del pensiero di Aristotele, specie nei suo frammenti dedicati all’arte della derisione e del sorriso dissacrante (come accreditato ai posteri dalla poetica di Aristofane).

Più complessa e articolata  l’analisi del romanzo se  scandagliata nella sua stratificazione di generi  poiché “non  appartenente a un ‘singolo genere’ …..e accertato che  sotto la patina ‘del giallo ecclesiale’ si cela una dovizia di rimandi intertestuali, citazionistici palesemente postmoderni”. Come la genialità del suo autore – e sul modello dei “Promessi sposi’” di Manzoni,  in cui l’invenzione di vicissitudini e pedine protette dal Trascendente Provvidenziale   è poi  immersa  in una specifica epoca, e contesto sociale segnati, dalle superstizioni di fede –  “Il nome della rosa”  restituisce  l’Italia medievale delle controversie religiose e degli scontri tra Papato e Impero, inserendo oltre a personaggi inventati, anche figure storiche, come l’imperatore Ludovico il Bavaro o fra Dolcino; mentre l’ambientazione e l’atmosfera ricordano quelle dei romanzi gotici del Sette-Ottocento.  Con particolare attenzione per l’opera di Conan Doyle e  per la sua prediletta “creatura”  Sherlock Holmes, con cui la ‘nominazione’ di Eco gioca a rimpiattino, sciarade e altre amenità intellettive, qui   circoscritte   al   “Mastino di Baskerville”.

Un’ulteriore chiave di lettura (decisamente azzardata, se non stravagante) delinea  infine  il romanzo quale metafora (laico-chiesastica) delle vicende italiane contemporanee  di poco precedenti la pubblicazione  de “Il nome della rosa” (1980), ovvero la situazione politica degli anni settanta, con “le diverse parti in causa a rappresentare sì l’evolversi di un dibattito politico-spirituale inerente la povertà nel Trecento, ma anche le diverse correnti di pensiero o circostanze proprie degli anni di piombo”.

Troppa grazia e fantasia.

Non da ultima, l’osservazione del manoscritto ritrovato,  espediente narrativo già usato da tanti scrittori di prima grandezza:  Manzoni a parte,  Walter Scott in “Ivanhoe”,  Nathaniel Hawthorne in “La lettera scarlatta”, Cervantes nel “Don Chisciotte”, Ludovico Ariosto nell’ “Orlando furioso”, Giacomo Leopardi nel preambolo al Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco nelle “Operette morali”, lo stesso Umberto Eco per il successivo “Il cimitero di Praga”.

Excursus e dispiegamenti che non servono  a sfoggiare acquisizioni neofite, tantomeno integrare la conoscenza di un’opera letteraria che, desiderandolo, può riproporsi ad una lettura individuale e minuziosamente poliedrica, con una semplice visita in biblioteca.   Ineludibile   invece evidenziare quanti e quali ‘assist’ linguistici e metalinguistici (proprio sul piano del romanzo traslato in   drammaturgia) l’ingente opera di Eco abbia invano offerto al temerario e  monolitico gioco di dissipazione che  si compie in questa stramba occasione teatrale, cifrata dal ‘girare in tondo’ in un unico ambiente (le segrete del monastero) con timbri, sonorità, iconografie da pessimo romanzo d’appendice e vegliarde citazioni da sceneggiato televisivo  ‘alla voce’ Abate Faria e Conte di Montecristo.

Liddove – vado a memoria- il veloce ripasso del famoso  film di Annaud del 1986 o dei medio metraggi  “I misteri dell’abbazia” tratti dai romanzi di Ellen Peters e deliziosamente interpretati dal grande Derek Jacobi, avrebbero diversamente consigliato snellimenti d’ogni genere ad una magma di pagine scritte, espiantate e riproposte in una sorta di teatro teosofico-dibattimentale  pesantamente esposto ad una tremenda legge del contrappasso: quella di sacralizzare (involontariamente)  l’oscurantismo d’ogni “saper profano” cui è rischioso esporsi in trasgressione alla legge dei “semplici” e  dei “timorati di Dio”. Anche se ad evocare è, come il Eco, il fraticello penitente e ottuagenario, ultimo testimone di accadimenti “sì luttuosi e tremendi”. Sino all’incendio finale che distrugge (bagliori e fuochi fatui) abbazia, miscredenti, custodi del Verbo e delegati pontifici.

Il tutto appesantito da una cupa scenografia modellata sull’idea della metonimica  “scatola magica”, esposta all’ingresso minimale di pochi oggetti d’epoca (lumi, pergamene, codici miniati, cascata di teschi ad enucleare un ossuario segreto), consueto abuso (fuori luogo e fuori tempo) di  computer grafica per simulare sfondi e sottotracce difficili da “reinventare”- e, per guizzo sanguigno, una poderosa, fiammeggiante apoteosi di penitente allo stremo (il frate eretico) sottoposto alla flagellazione del gatto a nove code.

Nulla da aggiungere (tranne un elogio a Diberti e Lazzareschi, che si prodigano in speditezza e sobrietà per alleviare l’autodafè  di platea: tre ore più intervallo).

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“Il nome della rosa”

di Umberto Eco

versione teatrale di Stefano Massini (© 2015)

regia e adattamento Leo Muscato

con (in ordine alfabetico)

Eugenio Allegri, Giovanni Anzaldo, Giulio Baraldi, Luigi Diberti, Marco Gobetti,

Luca Lazzareschi, Bob Marchese, Daniele Marmi, Mauro Parrinello,

Alfonso Postiglione, Arianna Primavera, Franco Ravera, Marco Zannoni

scene Margherita Palli – costumi Silvia Aymonino

luci Alessandro Verazzi – musiche Daniele D’Angelo

video Fabio Massimo Iaquone, Luca Attilii

Produzione Teatro Stabile di Torino -Teatro Nazionale/Teatro Stabile di Genova/Teatro Stabile del Veneto -Teatro Nazionale

in accordo con Gianluca Ramazzotti per Artù e con Alessandro Longobardi per Viola Produzioni

con il sostegno di Fideuram – Intesa Sanpaolo Private Banking

Roma Teatro Argentina dal 30 gennaio al 4 febbraio

Padova Teatro Verdi dal 7 all’11 febbraio

Venezia Teatro Goldoni dal 21 al 25 febbraio