La dolce vita e l’addio di Federico
4 febbraio 1960, esce in prima mondiale, a Roma, “La dolce vita”, capolavoro assoluto dell’Arte novecentesca. Federico Fellini, già dentro la sua crisi personale, che toccherà il culmine 3 anni dopo con “Otto e mezzo”, cavalca la tigre e racconta, nel personaggio del protagonista, il giornalista Marcello Rubini (un inarrivabile e magnificamente perplesso Marcello Mastroianni), il suo smarrimento in un mondo definitivamente mutato. Roma ne è solo il simbolo, l’epifenomeno. Il boom economico ha già trasformato totalmente la città, vitalisticamente plebea (Pasolini la inseguirà invano fino a morirne), che lui aveva conosciuto 20 anni prima arrivando dalla sua Romagna. Ogni punto di riferimento, sentimentale, morale, personale, è stato sacrificato sull’altare di quel “neocapitalismo” in cui le sovrastrutture marxiane sembrano ormai schegge impazzite e irrecuperabili.L’incomunicabilità regna sovrana e Fellini si accosta inevitabilmente ad Antonioni.
Il padre di Marcello-Federico (non casualmente interpretato dall’icona del cinema “fascista” Annibale Ninchi), giunto a Roma dalla provincia, in visita al figlio “perduto”, è il passato irrecuperabile e prossimo alla morte. La giovanissima Valeria Ciangottini, protagonista di uno dei più bei finali della storia del cinema il futuro carico di incognite, che, purtroppo, a noi oggi è toccato disvelare in tutta la sua drammaticità. Film definitivo, sincopato ed extrasistolico, “La dolce vita” è l’addio di Fellini al suo presente. Il suicidio dell’angosciato intellettuale Steiner (un immenso Alain Cuny), specchio inquietante di Marcello, ne anticipa metaforicamente i contenuti. Da questo momento, Fellini si rifugerà nei meandri della psicanalisi e nella nostalgia per un passato irrecuperabile (“Amarcord”, in dialetto romagnolo significa proprio “mi ricordo”). Quando nei suoi ultimi tre film, grande proprio l’epilogo “La voce della luna”, tenterà di rientrare nella realtà a lui coeva, lo farà solo per dirci che oltre a lui, e con lui, è scomparso anche, e soprattutto, il suo strumento per dire, e dunque per esserci: il cinema, seppellito dall’enorme montagna di immagini spazzatura vomitate dalla televisione.
Sic transit …
Miracoli visivi, felliniani!