Genio e dissipazione. “Final Portrait” di Stanley Tucci

Genio e dissipazione. “Final Portrait” di Stanley Tucci

All’apparenza esteriore Final Portrait si prospetta subito come un film che somiglia a tanti altri ruotanti su pochi personaggi segnati dalla stimmate dell’usurato binomio “genio e sregolatezza”. Dopo, però, ci si accorge che soltanto una pigra attenzione può indurre a simile travisamento. Alberto Giacometti, l’artista svizzero-italiano cui si devono le stilizzate, filiformi sculture e le figure arieggianti l’esistenzialismo più che famose è uno dei protagonisti di spicco della storia legata all’esperienza d’eccezione dal facoltoso scrittore americano James Lord. Di più: oltre che protagonista Giacometti risulta per l’occasione lo straordinario animatore di una pantomima movimentata dell’esemplare “vita da artista” con tutti gli annessi e connessi canonicamente definiti: certo, genialità, ispirazione originale, parossismo inventivo e – a compattare il tutto – una naturale inclinazione all’eccesso, alla condotta trasgressiva.

Ma andiamo con ordine: Stanley Tucci, attore eclettico e regista di indubbio talento (Big Night, Gli imbroglioni) si è rifatto ad un libro di James Lord, Un ritratto di Giacometti, traendone una vicenda rigorosamente realistica sulla particolare avventura vissuta dallo stesso Lord a cavallo dei primi anni Sessanta a Parigi. In precedenza, lo scrittore americano aveva avuto, in America, un fugace incontro con Giacometti e, in ordine a quella circostanza, dieci anni dopo si trovò a vivere un’altra occasione di incontro col celebre Giacometti. Un’occasione, c’è da sottolineare, dal carattere marcatamente inconsueto, dal momento che Lord e Giacometti si trovarono d’accordo nel definire un loro appuntamento periodico per realizzare da parte dell’artista un ritratto, facendo da modello, del medesimo Lord. Cosa da risolvere, a dire del pittore-scultore con poche sedute di posa e, ben altrimenti, tramutato in una spossante corvée.

Il pretesto, dunque, di creare insieme un ritratto di peculiare significato si dispone come base e sviluppo progressivo del racconto, anche se l’impronta narrativa si srotola e si incardina soprattutto ad una sarabanda di gesti, di trasgressioni smodate, di vizi e stravizi (tabagismo, eccessi sessuali, disordine comportamentale, dissipazioni). Fulcro e motore di una tale vita allo sbando, compaiono poi il fratello dell’artista oltre la moglie e l’amante trascinati in una quotidianità dispendiosa. E se Giacometti esce in questa ricostruzione secondo un’immagine anche vistosamente esagerata, il senso che Tucci vuole dare al proprio film si dimostra qui dettata soprattutto da un’idea di spaesamento, di inappagata sete di perfezione, dell’irriducibile ansia di verità, appunto, di Giacometti.

Final Portrait si presenta quindi come un’apologia conclamata dell’artista geniale che, al di là di ogni regola o statuizione moralistica, rivendica ancora e sempre l’irriducibile ragione della libertà creativa. E per ribadire inequivocabilmente tanta illuminazione, Stanley Tucci, da quell’attore e regista avveduto che è, ha puntato risolutamente su due componenti essenziali: una raffigurazione costantemente tenuta sul piano di una sobria suggestione visuale (con un décor ambientale semplice e preciso) e una distribuzione degli interpreti del tutto azzeccata: Geoffrey Rush nel ruolo di Giacometti profonde perle di sapienza scenica superlativa, mentre i comprimari nelle parti di supporto si prodigano con ammirevole misura.

Final Portrait nel complesso si può ritenere un ottimo lungometraggio che pur con qualche zona d’ombra e qualche indugio istrionico attesta sul terreno drammaturgico una pur reversibile constatazione. Il talento geniale è, sicuramente, importante, anche se l’attitudine dissipatrice spesso imbriglia lo slancio innovatore più temerario.