Canti suicidi di Goethe e de Musset
Giancarlo Sepe mette in scena “Werther a Broadway”
Roma, Teatro La Comunità
La cognizione del dolore è trauma- ed unica arma contro l’annichilimento che esso comporta (a.p. ‘Appunti sparsi’)
°°°°
Suggestiva ma non inedita, la ‘fuga’ oltreoceano degli antieroi europei (di genitura sassone, germanica, austroungarica…i mediterranei vi emigravano) ha almeno un illustre antecedente nel kafkiano (ed incompiuto) “America”, da cui Maurizio Scaparro, una ventina d’anni or sono, ricavò uno dei suoi spettacoli più riusciti, divertenti, speditamente “incosciente e depensato” come il giovane Karl Rossmann, alter ego sognato e mai avveratosi dello scrittore praghese.
Analoga operazione compie adesso Giancarlo Sepe, colto, raffinato regista ed esegeta di promiscui linguaggi scenici, pur sempre intrigato da quegli impeti di gioventù “illimitata”, tumultuosa, infelice, di cui Schiller ed Hofmannsthal restano probabilmente gli alfieri più veementi. E, con essi – per completamento successivo – il nomade Leopardi, che diede scansioni liriche alla fragilità, al “venir meno” di quella età breve, ma trafitta a perdifiato.
Al dunque, “Werther a Broadway” riscrive e trasvola il romanzo epistolare che Wolfgang Goethe, allora venticinquenne, consacrò alla più tragica (seriamente tragica, crudele, mai sdilinquita) delle cognizioni del dolore espresse dall’anima polimorfa dello ‘sturm und drang’ – cui si annette il fervente ma dimenticato bozzetto drammaturgico di Alfred de Musset (“Non si scherza con l’amore” del 1834), ove crimini del cuore e suicidi per disillusione hanno lo speculare e femminile vessillo d’una giovinetta parigina.
Forte della propria capacità di sintesi (quasi “epifania” d’altri dolori che storia e cultura del novecento dispenseranno a piene mani) l’allestimento di Sepe è un elegante ma non folgorante esercizio di stile: mix di teatro immagine, musicale e moderatamente dialogato-poliglotta-intersecato dalle universali melodie di Gershwin, Shubert, Britten e tanto Kurt Weill (le note di “Alabama song” mi pare si ripetano più volte). Suddiviso per blocchi progressivi (e autonomi), a partire dalla dissacrante, scoperchiata lapide su cui sta inciso il nome di Werther, presto folgorato dalle pur caduche e resistibili ‘baldorie’ in terra effimera.
Tenue e seducente quale schizzo pittorico d’un riconosciuto maestro del teatro non convenzionale, autoctono e sempre a rischio di sfratto, l’entracte di Sepe (che a noi rivela un attore semiesordiente della qualità e potenzialità di Marco Imparato) ha qui il sapore di una prova di allenamento e alleggerimento, ferrato e di alta classe, dopo realizzazioni più complesse , articolate, impegnative (“Washington Square”, “Abecedario americano” primi titoli del trittico), specie per il “lavoro” di immaginazione, tessitura drammaturgica, composizione iconografica.
“Povera” – in questo caso – ma infallibile nella sua capacità di inventare atmosfere immerse nello ‘spessore’ enigmatico del sogno e dei sogni. Quelli che, si sa, muoiono all’alba e poi riprendono a vivere in altre menti, bizzarre e impalpabili staffette dell’inconscio.
°°°°
“Werther a Broadway”
Ideazione e regia di Giancarlo Sepe. Scene di Alessandro Ciccone. Costumi di Lucia Mariani. Musiche di Davide Matrogiovanni a cura di Harmony Team. Disegno Luci di Guido Pizzuti. Interpreti: Marco Imparato, Sonia Bertin, Massimiliano Auci, Adele Tirante, Federica Stefanelli. Roma, Teatro La Comunita (sino al 28 febbraio)