Pensiero come rinuncia. “Uno zio Vanja” alla Pergola di Firenze

Pensiero come rinuncia

Vinicio Marchioni Francesco Montanari

UNO ZIO VANJA

di Anton Čechov

adattamento Letizia Russo

con Milena Mancini, Lorenzo Gioielli, Nina Torresi, Andrea Caimmi, Alessandra Costanzo, Nina Raia

scene Marta Crisolini Malatesta

costumi Milena Mancini e Concetta Iannelli

musiche Pino Marino

luci Marco Palmieri

regia Vinicio Marchioni

Durata: 2h e 30’, con intervallo

Khora.teatro

in coproduzione con Fondazione Teatro della Toscana

26 gennaio – 4 febbraio | Teatro della Pergola PRIMA NAZIONALE

(ore 20:45, domenica ore 15:45, riposo lunedì 29 gennaio)

 

La malinconica tragedia delle aspirazioni deluse di persone che, a forza di pensare, hanno finito per rinunciare ad agire o che tentano di reagire, ma falliscono mettendosi in ridicolo. Vinicio Marchioni dirige e interpreta con Francesco Montanari Uno zio Vanja di Čechov nell’adattamento di Letizia Russo.

 

Rileggendo il testo, Marchioni ha trovato che la vecchia piantagione piena di debiti al centro del dramma ricordasse la crisi del nostro Paese, la nostra mancanza di fiducia e speranza. In questa nuova versione di Zio Vanja, i protagonisti ereditano un teatro di provincia, in uno dei luoghi fortemente colpiti dagli ultimi terremoti. Quelle macerie sono una metafora della nostra situazione: non per parlarne in modo negativo, ma per cercare la marcia giusta per ripartire.

In fondo è a questo che Čechov ci invita: capire quanto sia meschina l’esistenza borghese, così priva di slanci e di entusiasmi, così mediocre e vuota, per inventarsene una diversa. E uscire dalla gabbia che ci siamo fabbricati per diventare uomini migliori.

Si vive, semplicemente (o ci si avvicina alla morte giorno dopo giorno), e nel vivere si soffre, in un grigiore permanente e alienante. “Volevo solo dire alla gente – affermò Čechov – in tutta onestà: guardate, guardate come vivete male, in che maniera noiosa”. È il 26 ottobre del 1899 quando va in scena per la prima volta al Teatro d’arte di Mosca Zio Vanja, oggi considerato uno dei drammi più importanti dello scrittore russo.

Il suo stile, modellato sul tragicomico del quotidiano, restituisce con fascino irripetibile e struggente le complesse sfaccettature dell’esistenza umana. Lo spettacolo nell’adattamento di Letizia Russo (da un’idea di Vinicio Marchioni e Milena Mancini) in prima nazionale al Teatro della Pergola di Firenze dal 26 gennaio al 4 febbraio con il titolo Uno zio Vanja, fa perno su precise note di contemporaneità della scrittura čechoviana, per esaltarne la straordinaria attualità creativa, nell’assoluto rispetto delle dinamiche tra i personaggi e dei dialoghi del testo classico.

Questa riedizione di Zio Vanja vuole essere uno specchio in cui possiamo vedere riflessa la nostra incapacità (o non volontà) di essere felici. Può essere una visione sgradevole, ma gli specchi hanno un lato salutare: se quello che appare non ci piace, possiamo tentare di cambiarlo. Vinicio Marchioni dirige il lavoro e interpreta zio Vanja, con Francesco Montanari (Astrov), Milena Mancini (Elena), Lorenzo Gioielli (Serebrijakov), Nina Torresi (Sonja), Andrea Caimmi (Telegin), Alessandra Costanzo (Marija), Nina Raia (Marina). Le scene sono di Marta Crisolini Malatesta, i costumi di Milena Mancini e Concetta Iannelli, le musiche di Pino Marino, le luci di Marco Palmieri. Una produzione Khora.teatro in coproduzione con Fondazione Teatro della Toscana.

Protagonista dei quattro atti originali è Ivan Petrovic Voiniskij, zio Vanja appunto, che per anni ha amministrato con scrupolo e abnegazione la tenuta della nipote Sonja versandone i redditi al cognato, il professor Serebrjakov, vedovo di sua sorella e padre di Sonja. Unica amicizia nella grigia esistenza di Vanja e di Sonja è quella del medico Astrov, amato senza speranza da Sonja. Per il resto sono tutti devoti al professore, che credono un genio. Serebrjakov si stabilisce con i due, insieme alla seconda moglie, Elena. Le illusioni sono presto distrutte: alla rivelazione che l’illustre professore è solo un mediocre sfacciatamente ingrato, zio Vanja sembra ribellarsi: in un momento d’ira arriva a sparargli, senza colpirlo. Nemmeno questo gesto estrema modifica il destino di Vanja e di Sonja, che riprendono la loro vita rassegnata e dimessa, sempre inviando le rendite della tenuta al professore tornato in città con la moglie.

Note di Regia

“I temi universali della famiglia, dell’arte, dell’amore, dell’ambizione e del fallimento, inseriti in una proprietà ereditata dai protagonisti della vicenda di Zio Vanja, sono il centro della messa in scena. Cosa resta delle nostre ambizioni con il passare della vita? E se fossimo in Italia oggi, anziché nella Russia di fine 800? La nostra analisi del capolavoro čechoviano parte da queste due domande, che aprono squarci di riflessioni profondissime, attraverso quello sguardo insieme compassionevole, cinico e ironico proprio di Anton Čechov, finalizzato a mettere in scena gli uomini per quello che sono, non per come dovrebbero essere.

Vinicio Marchioni

Intervista a Vinicio Marchioni

di Angela Consagra

Com’è arrivato all’idea di questo spettacolo, Uno zio Vanja, con una messinscena che parte da un tipo di teatro classico per avvicinarsi poi alla situazione italiana contemporanea?

Negli ultimi quattro anni ho cercato di leggere un po’ tutto quello che è stato scritto su Čechov, partendo dagli epistolari e dalle sue opere fino alle biografie che lo descrivono. Naturalmente tutto è stato accompagnato dalla lettura approfondita del testo di Zio Vanja, anche perché io sono sempre stato molto colpito dagli ultimi tre lavori di Čechov: Zio Vanja, appunto, Tre sorelle e Il giardino dei ciliegi. In queste tre opere mi sembra di percepire un filo che le lega, come un unico macrotema che collega questi testi: il tema della casa. Dall’esterno arrivano delle persone in una proprietà che riveste nella storia una rilevanza fondamentale e devastano tutto perché accadono cose rivoluzionarie per l’ordinario stato delle cose come, per esempio, degli innamoramenti folli… Alla fine però queste persone straniere rispetto ai protagonisti ritornano via e abbandonano la casa, mentre chi resta è rassegnato. Penso, per esempio, al finale de Il giardino dei ciliegi con il taglio del bosco che è sinonimo di distruzione… È’ come se questi ultimi testi di Čechov riflettessero una profonda coscienza della malattia che intanto nella vita aveva colpito questo autore e, anzi, penso che lui fosse consapevole in questa fase di essersi avvicinato alla fine. In particolare, Zio Vanja è stato da subito il lavoro più chiaro ai miei occhi: questi debiti di cui si racconta nell’intreccio drammaturgico, questa proprietà che non produce più e il grano che non cresce, e soprattutto il piano simbolico che sta dietro all’immagine del grano, tutto ciò mi ha fatto pensare alla nostra condizione in Italia oggi. È la situazione culturale degli ultimi anni che mi pare in una situazione di stallo, e non dal punto di vista solamente economico, ma proprio a partire dalla creatività e dallo studio che ci deve essere dietro ad un progetto perché qualcosa riesca a crescere. Zio Vanja è un personaggio che ha 47 anni, ma si sente ormai già vecchio: ha dovuto accettare un’eredità che non ha chiesto pagando egli stesso dei debiti con la sua parte di eredità, vive in una costante percezione del fallimento, che io vedo molto simile alla mia condizione di attore e di cittadino attuale. Anche noi italiani abbiamo ereditato un debito dal passato, ed è un lascito culturale e sociale che dobbiamo necessariamente rivedere per arrivare a ricostruire il futuro. Ecco perché la mia prima idea di adattamento per Uno Zio Vanja è partita da questo concetto ed ho pensato così di spostare il luogo dell’azione. I protagonisti del nostro spettacolo, anziché ereditare una vecchia piantagione agricola nella Russia di fine Ottocento come accade nell’opera originaria, ereditano un vecchio teatro in Italia. In due notti ho iniziato personalmente a scrivere l’adattamento, provando a confrontarmi continuamente con il testo di Zio Vanja di Čechov: sostituivo la parola ‘proprietà’ con la parola ‘teatro’ e immaginandomi le dinamiche dei vari personaggi mi accorgevo via via che il risultato poteva funzionare. Dopo questa prima bozza di adattamento ho coinvolto allora nella scrittura Letizia Russo e abbiamo iniziato un lungo periodo di frequentazione creativa e di brain storming sul testo dello spettacolo, analizzando e discutendo insieme fino all’intuizione di ambientare l’intreccio in un vecchio teatro di uno di quei paesini colpiti in Italia dal terremoto. Io ho vissuto molto da vicino l’ultimo terremoto nelle Marche del 24 agosto di due anni fa, ho perso degli amici… Uno dei miei intenti sicuramente è quello di riuscire a dare un contributo, anche da un punto di vista artistico, per cercare di non dimenticare quello che è accaduto.

Quindi lo spettacolo è un modo per avvicinarsi, da cittadini e spettatori italiani, ad un classico del teatro che solo apparentemente appare molto distante da noi?

Credo che la nostra idea di adattamento possa colpire emotivamente l’immaginario collettivo perché se io parlo di certi fatti immediatamente ognuno di noi conserva dentro di sé un proprio ricordo legato a quell’evento così tragico, una personale immagine, magari vista nei telegiornali, che ci induce da spettatori ad entrare meglio all’interno dello spazio narrativo abitato da questi esseri umani che portiamo in scena. La scrittura di Čechov è inattaccabile, infatti non abbiamo cambiato una virgola rispetto alla costruzione verbale originale e mantenendo, per esempio, tutte le pause che ha scritto. Ancora oggi Čechov può apparire, con quelle sue atmosfere rarefatte, molto lontano dalla nostra realtà e invece la noia che accompagna i suoi personaggi si esprime come un sentimento che fa semplicemente da cornice allo sviluppo dell’azione. Nell’originale čechoviano questa piantagione in cui nulla cresce più è lo sfondo in cui gli esseri umani bruciano d’amore, si aggrappano ad un sentimento illusorio perché hanno bisogno di costruire qualcosa all’interno di loro stessi. Il testo conserva un grado tale di elettricità emotiva, soprattutto nel secondo atto, con questi tuoni e il temporale che avanza… Sicuramente Čechov è un autore classico e contemporaneo al tempo stesso, anche per questo siamo arrivati alla scelta di mettere i personaggi originari in una situazione di crisi reale attuale, che ci riguarda proprio come esseri umani. Nella nostra versione le vicende ruotano tutte all’interno di un teatro che non lavora più perché c’è stato un evento distruttivo – il terremoto – e i muri sono crollati. Però bisogna comunque andare avanti e allora il monologo di Sonia, forse uno dei più belli in assoluto della storia del teatro, acquista davvero un senso. Sonia dice che non bisogna smettere mai di lavorare perché senza l’obiettivo di un lavoro, senza l’idea di costruire qualcosa, niente può esistere. È questa è la grandezza di un autore come Čechov: nei suoi testi si prende coscienza della crisi e contemporaneamente si intuisce che una speranza ci deve essere. Ed è in questo ‘ci deve essere’ che sta tutto il senso del messaggio čechoviano perché allora diventa necessario prendere in considerazione tutto ciò che ognuno di noi può fare, con impegno, affinché la speranza non smetta mai di sopravvivere. Quello che mi ha maggiormente colpito di questo autore è la sua condivisione con ogni essere umano, il sentimento della pietas che esprime: la scrittura di Čechov manifesta una compassione reale verso ogni individuo e non si tratta della pietas cristiana cattolica, piuttosto è con uno sguardo molto umano ed indulgente che lui guarda e si sofferma sui vari personaggi. Riconosce le mancanze dell’essere umano e ne ha una pietà enorme.

Giovedì 1 febbraio, ore 18, Vinicio Marchioni, Francesco Montanari e la Compagnia incontrano il pubblico alla Pergola. Coordina Riccardo Ventrella. Ingresso libero fino a esaurimento dei posti disponibili.

 

TOURNÉE

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