La mente prigioniera di Ginny. “La ruota delle meraviglie” di Woody Allen
Lo sguardo di Ginny ogni tanto si spegne, perdendosi chissà dove. Nella memoria di un passato di attrice trascorso in un soffio, di un marito batterista geniale e molto amato, eppure tradito per un abbaglio dei sensi. Uno sguardo che sembra dibattersi, oscuro e smanioso, nel presente disadorno e senza prospettive: un lavoro come cameriera al Ruby’s Clam House di Coney Island, un appartamento angusto e trascurato scosso dal frastuono e dalle luci intermittenti del Luna Park, un figlio che cerca una via di fuga interiore appiccando incendi – forse per osservare la materia diventare energia attraverso la combustione –. E Humpty, il nuovo marito, l’ultimo gradino della discesa: un manovratore di giostre grezzo, sgraziato, alcolista e violento che se un tempo l’ha salvata dalla rovina, adesso appare soltanto un molesto carceriere.
E’ una magistrale variazione sul tema della deriva esistenziale, dei paradisi perduti e continuamente rimpianti, della quotidianità repellente da cui la protagonista cerca di proteggersi per mezzo dell’abuso alcolico. Impossibile non ricordare la logorrea disperata di Jasmine, cui Cate Blanchett fa percorrere con arte impareggiabile tutte le stazioni del declino e della follia nel film di Allen del 2013.
Si va avanti così, fra l’odore del pesce e le illusioni perdute, finché Ginny non incontra Mickey, giovane bagnino e aspirante scrittore con l’abitudine di recitare situazioni e sentimenti per poi raccontarli (a se stesso e all’obiettivo), come se la vita fosse un esercizio di stile preparatorio in attesa di comporre uno dei tanti grandi romanzi americani. Questo giovane vanesio, occasionalmente moralista, sempre alla ricerca della frase poetica adeguata alla situazione, che Allen seziona con finezza e disincanto, diventa nell’animo di Ginny la possibile salvezza, mentre per il ragazzo non è che uno dei tanti volti resi incantevoli dalla luce che segue la pioggia.
La vicenda si complica ulteriormente con l’arrivo di Carolina, figlia della prima moglie di Humpty. La ragazza, sgualcita e scompigliata nell’abito aderente a rose gialle, si aggira entro l’ipercromatismo delle insegne e dei chioschi sovrastata dalla gigantesca Wonder Wheel rosa azzurra e verde, simbolo di quella luccicante tempera che nell’America degli anni ’50 veniva stesa su ogni turbamento, su qualsiasi deviazione rispetto ai canoni sociali. Una coartazione all’allegria esibita e all’efficienza che negava la possibilità stessa dell’identità individuale, in particolare quella femminile.
Carolina ha fornito alla polizia informazioni sul marito mafioso per evitare un’incriminazione e cerca riparo presso il padre a Coney Island, mentre due sicari la inseguono per ucciderla. Dopo un’accoglienza risentita e nonostante l’ostilità di Ginny, Humpty decide di ospitare la sua principessa e di usare i risparmi per pagarle la scuola serale e darle l’opportunità di una nuova vita. Purtroppo la casualità non-lineare, sconnessa e intricata, sempre protagonista (con varie tonalità) nei film di Allen, determina i presupposti di un innamoramento fra Mickey e Carolina che addensa le speranze di Ginny in un grumo buio di delusione rancorosa.
La donna, accortasi per caso che i due sicari hanno intercettato Carolina, avrebbe l’opportunità di avvertirla e salvarla con una semplice telefonata. E, in effetti, cerca in un primo momento, affannosamente, una cabina telefonica e compone persino il numero. Ma quando si è prigionieri senza speranza è difficile riflettere e fare la cosa giusta. Il male, il delitto, possono diventare un’opportunità di riscatto (come per Chris Wilton in Match point) e fermarsi al di qua della colpa è spesso impossibile. Il ricevitore viene riappeso, ma Allen da molti anni osserva carnefici e vittime con la stessa partecipazione malinconica, senza giudizi morali, quindi non condanna Ginny, sapendo bene che con quel gesto inutile ha eternato la propria dannazione.
Le resterà soltanto un lungo monologo alla Blanche DuBois davanti all’attonito Mickey, durante il quale la sensibilità intrerpretativa di Kate Winslet nel raccontarci dolore, autoinganno e immaturità di questa donna raggiunge quelle profondità abissali dove la luce esterna non arriva più, assumendo la forma di una figurazione indifferente.
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