Un tragico mattino domenicale. “Suburbicon” di G. Clooney con J. Moore

Un tragico mattino domenicale. “Suburbicon” di G. Clooney con J. Moore

  • DATA USCITA: 06 dicembre 2017
  • REGIA: George Clooney
  • SCENEGGIATURA: Joel ed Ethan Coen, George Clooney, Grant Heslov
  • CON: Matt Damon, Julianne Moore, Noah Jupe, Glenn Fleshler, Alex Hassell, Gary Basaraba, Oscar Isaac, Jack Conley, Karimah Westbrook
  • PAESE: USA
  • DURATA: 105 Min
  • DISTRIBUZIONE: 01 Distribution

 

Viene spontaneo cominciare dalla fine, per quietare l’agitazione. O per dare il tempo ai pensieri di tornare a radunarsi nel nido, come una piccola tribù dispersa dal turbamento. E’ domenica mattina, abbiamo tutto il tempo del mondo. Mancano le compiacenze dell’accappatoio, caffè e arance, su una sedia al sole (1); c’è invece l’oscuro peso della catastrofe, quasi una bonaccia che oscura luci d’acqua (1).

Gardner Lodge è riverso sul tavolo della cucina, morto per aver mangiato durante la notte la merenda al sonnifero preparata per il nipote dalla cognata-amante Margaret (uccisa la sera prima da uno dei due killer ingaggiati da Lodge per uccidere la moglie Rose). Il figlioletto Nick, dopo aver spento la tv, raggiunge l’amico di colore nella casa di fronte per giocare a baseball. E’ l’unico spiraglio di luce concesso dal film, proprio sul filo di lana; mostrare la capacità dei bambini di riprendere il gioco con serietà, nonostante famiglie disfunzionali e persecuzioni razziali, delitti orrendi e un’abiezione morale che trascina via l’intera comunità.

Ci troviamo nel grazioso quartiere residenziale di Suburbicon, uno di quegli inferni dai colori pastello, con casette linde e praticelli verdissimi, che abbiamo imparato a conoscere bene in film come The hours (episodio di “Laura Brown”), Far from Heaven e persino Edward Scissorhands. Doveva essere fantastico viverci, negli anni ’50, se eri bianco, maschio, etero, avevi un buon lavoro e facevi parte di una delle numerose chiese evangeliche, avventiste o pentecostali. La sceneggiatura si è inizialmente ispirata alla vicenda dei Myers, una famiglia afroamericana che proprio negli anni ’50 si trasferì nel quartiere per soli bianchi di Levittown, vero prototipo delle funzionali linee di assemblaggio riservate a membri della “razza caucasica”.

Questa storia di delirio ariano collettivo che sfocia gradualmente in paranoia, persecuzione, boicottaggio, assedio rimbombante di invettive urlate senza interruzione, percussioni, inni pseudoreligiosi, fino alle minacce e agli atti di vandalismo che provocano il tardivo intervento della polizia e il ritorno a una calma di superficie, fa da cornice dimostrativa e cassa di risonanza alla narrazione principale, come se Clooney, impeccabile nel raccontare l’inquietante crescendo di violenza contro l’elemento a qualsiasi titolo xeno, volesse mostrare il brodo di coltura di una middle class di scarso intelletto, forti tendenze individualistiche, assenza di qualsiasi scrupolo morale e ambizioni inadeguate alle possibilità economiche e alle qualità professionali.

La prima sensazione che si prova è di venire spinti, in modo brusco, dentro una stanza non troppo grande e priva di finestre. Come nel pensiero degli chassidim bresloviani, cui più o meno sembra rifarsi tutta l’opera dei  Coen,  la natura umana viene amaramente ridicolizzata fino al disprezzo. Gli esseri angusti che agiscono soltanto in base a pulsioni primarie non possiedono alcuna facoltà o volontà di spingersi a osservare la natura fluida e cangiante della realtà, resa tale dall’essenza sottile del divino (del trascendente). Questa dialettica o contaminazione incessante fra infinito e tangibilità delle Cose, per essere compresa necessiterebbe di una liberazione dagli istinti subumani di cui Gardner Lodge e l’intera cittadinanza di Suburbicon sembrano incapaci.

Matt Damon e Julianne Moore

In questo script lucidamente disperato manca persino una figura capace di riscattare, almeno in parte, il male del mondo, come la poliziotta flemmatica e determinatissima di Fargo, mossa da un senso etico tanto forte quanto poco ostentato e verbalizzato.

Lunghe fasi della narrazione vengono sviluppate in soggettiva, assumendo il punto di vista del piccolo Nick, costretto a una precoce maturazione. Questo permette al regista di sfruttare al meglio notturni, ombre, luci, scantinati, strade troppo deserte, dalle linee troppo perfette, trasformando un possibile hard boiled qualunque in un incubo infantile che toglie respiro e difese intellettuali. Spesso l’obiettivo si ferma all’altezza delle mani o delle scarpe degli adulti per aderire allo sguardo del bambino, ed è una tecnica che usava Dickens nei suoi romanzi. Persino volti e atteggiamenti ci arrivano attraverso lo svelamento deformante operato dallo strumento ottico particolare che abbiamo in dotazione nell’infanzia, un po’ come se Nick usasse un grandangolo capace di far diventare le figure che gli gravitano intorno brutte come rospi o belle come principi azzurri (2).

I fili di trama e ordito li abbiamo già parzialmente descritti. Un omuncolo senza qualità dissipa i risparmi della moglie e della cognata per mettere in piedi un’attività economica che non riesce a gestire e che lo sta portando al dissesto economico (sono già tre le rate del mutuo non pagate). Per intascare la lucrosa assicurazione sulla vita di Rose simula un incidente d’auto, nel quale però la moglie non rimane uccisa bensì paralizzata, quindi diventa un doppio intralcio. Si fa presto a diventare un intralcio in quest’amena e domestica valletta, basta ostacolare in qualche modo la cupidigia bestiale che anima quasi tutti.

Lodge diventa l’amante di Margaret – altro personaggio poco edificante – e insieme complottano contro la povera Rose sognando una nuova vita ad Aruba, isola del Mar dei Caraibi dalle spiagge di sabbia bianca. Lodge ingaggia due killer pressoché cerebrolesi (altro elemento in comune con Fargo) per simulare una rapina in casa durante la quale i due devono incidentalmente eccedere con il cloroformio usato per sedare Rose e così mandarla in coma irreversibile. Il piano sembra riuscire, ma prima Lodge “dimentica” di pagare i due, poi Bud Cooper, un ringhioso e sorridente detective assicurativo (un travolgente Oscar Isaac, già protagonista nel 2013 di Inside Llewyn Davis), piomba a casa accolto da Margaret con quella rispettabile svampitezza perfettamente intonata  agli abiti a corolla, gialli, albicocca e celestini, da prigioniera del tinello. Tinello inteso, of course, come paradigma, principio ordinatore, luogo identificativo, “primo motore immobile” d’ogni definizione di femminilità.

Cooper, giovane sciacallo divorato dalla brama di denaro e ricattatore alle prime armi, finirà malissimo: prima chiedendo un caffè cui Margaret avrà cura di aggiungere qualche goccia di soda caustica, poi trapassato per strada dalla fiocina di Lodge (sempre deserte queste strade…non c’è da meravigliarsi, gli abitanti sono tutti impegnati a intonare salmi intorno alla casa dei disdicevoli invasori afroamericani).

Corpo e macchina del detective verranno fatti sparire da Lodge in un cantiere periferico, nelle stesse ore in cui Margaret viene uccisa da uno dei due balordi. Il male si diffonde più facilmente e diventa fine a se stesso quando trae alimento dall’ottusità.

La forma che emerge dalle acque della nostra dissonanza interiore, e ci bracca senza requie stringendoci dentro il confine di un’ansia sempre più incontrollabile cieca e rabbiosa, può anche non avere l’alta immagine mitteleuropea e metafisica della Bestia di Caproni – mozartiana, direbbe il grande poeta livornese – o la mostruosità allegorica del Colombre buzzatiano, squalo smisurato apportatore di morte e distruzione. La Morte (fisica e interiore) può anche non provenire da onde oceaniche ribollenti di colori stregati, come in Rime of the Ancient Mariner, ma, molto più modestamente, dalle frustrazioni di microscopici borghesucci che hanno sbagliato i conti della vita.

Oscar Isaac

Un film da vedere e rivedere, e meditare, alla cui splendida riuscita contribuisce in maniera determinante l’ennesima performance di classe inarrivabile di Julianne Moore. Non fa giochi di prestigio o illusionismo Mrs. Moore, non ha effetti speciali nascosti nella manica, non pratica le arti marziali e non sfoggia migliaia di identità. Non fa nessuna delle molte cose che vanno di moda oggi, però in pochi minuti ci racconta con lo sguardo e il corpo la consapevolezza amareggiata di Rose, confinata su una sedia a rotelle, e alla fine ci coinvolge come adolescenti mentre, nel ruolo di Margaret, cerca invano di ammansire la sagoma espressionista del sicario restando di spalle, rassicurandolo per allontanare da sé l’ombra della morte. Sorride e sussurra, perché sa che si tratta di un tentativo inutile, e gli occhi si arrossano piano piano di lacrime. I suoi e i nostri. Non c’è perdizione che meriti la morte.

(1) Wallace Stevens, Sunday morning (1924)

(2) Virginia Woolf, On being ill (1926-30)

 

luciatempestini0@gmail.com