Il Cristo dell’Amiata
Il secondo figlio di Dio di Simone Cristicchi al Teatro Biondo di Palermo
di Agata Motta 26-11-2017
Cosa c’era di speciale in David Lazzaretti per attrarre tanta gente disposta a seguirlo e a riconoscere in lui un maestro, quale forza soprannaturale si sprigionava da lui per persuadere umili e potenti della bontà delle sue teorie? E’ questo l’interrogativo che spinge Simone Cristicchi ad indagare sulla vita di un uomo straordinario “giunto all’improvviso a squarciare le tenebre”, ed è un quesito cui l’autore e interprete de Il secondo figlio di Dio, in scena al Biondo di Palermo per la puntuale e generosa regia di Antonio Calenda, si accosta più con la curiosità dell’uomo che dell’artista, tanto da non riuscire a reprimere l’impulso di uscire per pochi minuti dalla rappresentazione e condividere le sue riflessioni con il pubblico.
Scritto con Manfredi Rutelli e musicato con Valter Sivilotti, lo spettacolo è un monologo di un’ora e quarantacinque minuti che scivola via rapido, piacevole e accattivante, che accoglie gli inserimenti cantati – oltre la voce dolce e possente dello stesso Cristicchi a sottolineare i momenti più drammatici interviene il Coro Ensemble Magnificat di Caravaggio – e le elaborazioni video di Andrea Cocchi in un compiuto prodotto scenico di sicuro impatto che coinvolge i sensi e l’intelletto. Le vicende umane del Cristo dell’Amiata vengono ripercorse dalla nascita alla morte, nella parabola esistenziale che lo vede trasformarsi da oscuro barrocciaio e strambo scapestrato da osteria a mistico fervente e colto filosofo corteggiato dai potenti d’oltralpe.
Testo e regia costituiscono un impeccabile insieme, realizzano un congegno dai tempi giusti e calibrati, nessun indugio eccessivo e compiaciuto nei momenti che avrebbero potuto tenere avvinta per più tempo la partecipazione emotiva del pubblico, nessun cedimento sterile ai passaggi che avrebbero potuto suscitare sorrisi e facili ironie. Cristicchi, che possiede la qualità innegabile delle proporzioni matematiche delle componenti recitative, dà voce non solo al protagonista ma anche ai molti personaggi che gli ruotano intorno caratterizzandoli con pochi gesti e rapidi guizzi vocali, per cui quello che tecnicamente si configura come monologo praticamente diviene spettacolo corale e multiforme. Le scene di Domenico Franchi utilizzano un grande carretto di legno per segnare il percorso fisico ed interiore del personaggio. Il carro è il mezzo di sostentamento che David eredita dal padre, è quello di locomozione negli ostinati viaggi a Roma alla ricerca di un’udienza papale, è il giaciglio in cui febbricitante riceve le visioni, è il magnifico trono papale, è la chiesa da edificare che crolla seppellendo un bambino. Ma le morti innocenti, si sa, gridano vendetta e questa del bimbo avrà presto, come doloroso contrappasso, la morte del figlio del predicatore.
La vicenda di Lazzaretti attraversa il processo risorgimentale e da esso viene inevitabilmente segnato, tanto che la sua storia individuale respira e vive tra le pieghe delle più ampie vicende politiche e sociali della seconda metà dell’Ottocento, in quella delicatissima fase che segnò la rottura tra Stato e Chiesa, già avviata da Cavour e poi conclusa con la breccia di Porta Pia e la condanna aperta del neonato stato italiano da parte del pontefice Pio IX. In questo contesto il percorso di un mistico esaltato quale Lazzaretti non poteva lasciare indifferenti, anzi si prestò ad una facile strumentalizzazione utile ad entrambe le parti in causa. Fino ad un certo limite, però, fino al punto in cui si comprese che una nuova temporanea alleanza tra forze dell’ordine e potere spirituale doveva frenare lo strapotere di un leader carismatico che stava con determinazione e caparbietà destrutturando un sistema secolare, quello incentrato sulle disparità sociali ed economiche e sulla rassegnazione evangelica delle masse, per realizzare il sogno rivoluzionario della perfetta armonia e coesistenza tra spirito e materia. Persino il Tribunale del Santo Uffizio è chiamato ad intervenire per estorcere un’abiura di nessun valore, persino l’esercito è inviato a bloccare la processione variopinta, pacifica e preannunciata dal Monte Labbro ad Arcidosso che rischia di trasformarsi in atto sovversivo.
In realtà non particolarmente originale, seppur segnato da una forte impronta mistica, il pensiero di Lazzaretti fu impregnato fino al midollo degli ideali del socialismo utopistico, a sua volta figlio di certe istanze illuministiche. Da Charles Fourier, propugnatore della parità tra uomo e donna e della cooperazione tra i membri di comunità denominate “falangi”, a Robert Owen e al suo non riuscito esperimento comunitario di New Harmony, il sogno di una società giusta era già stato sognato e subito confinato nel regno dorato del “non luogo”, dell’utopia appunto, di ciò verso cui tendere nonostante la certezza della frustrazione. Lazzaretti aveva introdotto quel sogno nell’aspro territorio maremmano, lo aveva sostanziato di fede cieca, lo aveva regalato ai poveri e ai diseredati, lo aveva indossato fino all’identificazione finale ed estremamente disturbante della proclamazione di sè stesso quale “secondo figlio di Dio”, fino alla realizzazione della profezia della sua morte. Nella finzione scenica la voce narrante appartiene al soldato Pellegrini, trovatosi per caso durante la processione ad obbedire all’ordine di far fuoco sul mistico, quasi uno strumento nelle mani del Fato o di Dio. E il bianco lenzuolo, che inizialmente adagiato sul barroccio aveva adombrato un lembo delle pendici del monte Amiata, si sporca di rosso, colore politico e sacrificale, sangue versato che Cristicchi ha voluto ricordare con il suo lavoro e la sua bellissima e struggente interpretazione.
IL SECONDO FIGLIO DI DIO
di Simone Cristicchi e Manfredi Rutelli
regia di Antonio Calenda
musiche di Valter Sivilotti e Simone Cristicchi