La moviola del Tempo
DI GREGORIO? C’EST MOI
Note su “Gianni e le donne”, un film di Gianni Di Gregorio
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Meglio sarebbe gustarsi Gianni e le donne prescindendo dal film che idealmente lo precede (Pranzo di ferragosto) e dall’inatteso successo che, in qualche misura, ha cambiato ma non sconvolto la vita del suo autore: l’over-sessanta Gianni Di Gregorio, da sempre orbitante nei mestieri del cinema e assurto a una certa notorietà quale sceneggiatore di riferimento (di amicizia tutelare) del più giovane Matteo Garrone, molto prima dell’acclamato “Gomorra”.
In una delle rare occasioni in cui amiamo scommettere sulla “coincidenza” fra uomo ed artista, rivelo subito – per quel po’ che l’ho conosciuto – che Gianni è di natura mite, generosa, soccorrevole e – qualità oggi rarissima – dotato di un’immensa capacità di ascolto, sopportazione e pacato (molto pacato) ottimismo. Quindi a suo ago con la tristezza, la più laconica che esista. Elementi dalla quotidianità dell’esistere che si riflettono nella sua “filmica” stagione di tarda estate, pensionato anzitempo dal pubblico impiego, amabile nullafacente vivente tra ‘casa e bottega’ (non sua, quella del baretto rionale), flaneur di vite altrui (con vaghe ascendenze da Truffaut), nello stupefatto smarrimento di certa inerzia o passeggio che sembrano pantografati dalla poetica di Walser.
Addentellati che siamo noi a intravedere, poiché Gianni e le donne è, nella sua essenza, un film umbratile e nobilissimo: per la totale assenza di riferimenti intellettuali e rovelli filosofici – che non vadano oltre qualche crepa economica (con presagi e smottamenti di nuova indigenza), la cara complicità della figlia adolescente (con ragazzo ciondolante per casa), l’assillo di una madre novantenne ma che spende e spande, la distanza ravvicinata – eppure lontanissima – di una moglie che gli sta accanto ma lo considera poco più di un bambinone. In situazioni simili, e da simili premesse, potrebbe scaturire qualsiasi dramma di alienazione domestica, sino alle sue estreme conseguenze (penso a Miller, Strindberg, Carver).
In Gianni e le donne no, poiché tutto emana da un’atmosfera lieve, pacificata, adattata all’ammutolimento e alla solitudine progressiva di quest’uomo-senza-qualità che “guarda” alle donne guardando indirettamente al soffice vuoto della propria vita. In un’altalena di situazioni comiche, grottesche, paradossali, rapsodiche, ove le donne, appunto, hanno il crisma di un anelito sentimentale (non v’è traccia di libido, di desiderio erotico nello sguardo di Gianni) che declina verso il suo opposto: una resa incondizionata fatta di tenerezze implicite, di arreso piacere al rendersi comunque utile e presente con discrezione: far la spesa alla giovane coinquilina, portare il cane per giardinetti, sopportare un amico rozzo e invadente che lo imbottisce di viagra con prepotenza (esilarante!) servendosi di un imbuto – per poi spronarlo verso afrodisiaci, inesistenti piaceri di meretricio “oltre il Raccordo” –.
E che Gianni, creatura volatile e benigna, non sa nemmeno immaginare (nella loro desolazione), non avvertendone alcun pressante bisogno. Tentando, al massimo, di riallacciare un contatto con l’ex compagna d’infanzia (buccia di banana diffusa), nevrotizzata soprano che gli preferisce il fascinoso pianista d’accompagno (e Gianni piantato in asso con in mano le esose, caduche rose ), o rovistare un briciolo di complicità, di gratificazione nell’effimero, depotenziato incontro con un altro amore di supplemento, trascorso senza traccia.
Poiché, in fondo, a Gianni, del sesso a gettoni interessa poco, e quel che insegue, nelle donne, è una sorta di “utero a cui tornare”, protezione e consolazione spropositata, lenitiva del latente stato depressivo che consuma i suoi giorni romani, ‘ronzolando’ tra le viuzze di Trastevere e la villetta pariolina in cui vive la madre (segno di uno sfumato, atavico benessere), sulla cui consistenza economica (calcolo ereditario un po’ sordido ma empirico) capirà di non poter più confidare, poiché la genitrice ha già alienato mobili e immobile (vendita della nuda proprietà) in cambio di un vitalizio che le consenta di “proseguire” al di sopra dei suoi mezzi.
Frastornato ma non sconfitto, Gianni torna alle sue “passiuncelle” di sempre, sulle quali spicca – fra tutte – l’amore per gli animali e la psicologica remissività alle smanie della strabiliante vicina di casa: civettante e astutamente svampita. La cui “pozione” d’amore (un intruglio di prosecco e anfetamine) Gianni tracannerà in una sera di strambe aspettative, di futile euforia che lo istigheranno, in esasperazione implosiva, a traversare una Roma allucinata e micidiale, lui e il suo cane sempre al guinzaglio, in una rotatoria di gesti “inconsulti” e di energia stremata (il bagno nella pubblica fontana, fotografato nella perfezione d’una luminosità notturna e abbacinata) sino al mattutino arenarsi in una piazza Navona bigia e deserta, rintracciato dal fidanzato abulico della figlia, che lo ricondurrà inebetito alla dimora di sempre. Avendogli però chiesto: “Ma tu Gianni, cosa vorresti?”. Stacchetto, e Gianni (come Dustin Hoffman in Un uomo da marciapiede, prima di crepare) si vedrà all’innesto di rapidi fotogrammi “glamour”, concentrati di coccole e premure, beato (fra le donne), ma innocente di predatoria malizia. Come quando Petrolini sospirò in proscenio “Donne…vorrei essere da voi sbuccellato. E basta”.
Era, probabilmente, dai tempi di Umberto D che la condizione dell’uomo “dismesso”, dimesso, fuori mercato non veniva fotografata con tanta, spietata delicatezza, impassibile neutralità di sguardo e pedinamento.
Che Di Gregorio abbia saputo farlo sulla propria pelle – di autore ed interprete – è un dono inaspettato di certo cinema italiano minuscolo ma vitale, poco veicolato ma di totale indipendenza creativa. Quel cinema “invisibile” reso tale dalle malversazioni di distribuzione ed esercizio, di cui Gianni – alfiere senza saperlo – si fa testimonial per i giorni a venire e per una diverso modo di praticare l’arte della commedia, sull’indelebile scia degli “amati” ma dimenticati Flaiano, Brancati, Scarpelli, Incrocci…