Rai 5 ha di recente riproposto, con due repliche di sabato e domenica, una delle più squisite, originali, umanamente grumose edizioni (a nostra memoria) de “Il piacere dell’onestà” di Luigi Pirandello, protagonista Leo Gullotta. Fuor di polemica (e rammarico) sullo scarso utilizzo delle Teche Rai (veri scrigni di storiche rarità), a favore ed in promozione del Teatro di Prosa, specie per i giovani studiosi cui resta preclusa una non impossibile “visione del passato” per immagini vivide.
Proponiamo- rielaborato- il commento critico scritto per InScena-Scénario e Cinemasessanta nell’inverno del 2007
Teatro in Televisione
PIRANDELLO NEL GAZEBO
“Il piacere dell’onestà” di Luigi Pirandello. Regia di Fabio Grossi. Scene e costumi di Luigi Perego. Musiche di Germano Mazzocchetti. Luci di Valerio Timberi.
Con Leo Gullotta, Martino Duane, Paolo Lorimer, Mirella Mazzeranghe, Cristina Borgogni, Marta Richeldi, Antonio Fermi, Federico Mancini, Vincenzo Versari. Prod. Teatro Eliseo di Roma.
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Inizia dal Teatro Eliseo di Roma (che ne è anche produttore) la lunga tournée, a cavallo tra i due anni, del “Piacere dell’onesta” di Luigi Pirandello, con cui Leo Gullotta torna a confrontarsi con il “corpus” in fondo più ostico, meno memorabile e –tutto sommato- rappresentato con molti benefici d’inventario dell’autore a lui più congeniale: non solo per ragioni elettive e concomitanza geografica, ma –in particolare- per la natura stessa di questo attore così eclettico, saturnale, consapevole –fuori e dentro la scena- di appartenere a quel “gran teatro del mondo” dove a tutti è imposto di “interpretare” qualcosa, duttili e variabili alla bisogna. Giusto il tempo di rendersene conto e di scegliere, per se stesso, se la fortuna sta dalla tua, il ruolo che meglio ti si addice, in cui più stai a tuo agio.
Non so, ad esempio, quanto Gullotta stesse comodo (nel senso di mimesi attorale, di nevrosi sublimata) in “L’uomo, la bestia e la virtù”, che lo stesso Eliseo promosse tre anni fa e che ha poi viaggiato per tutta la penisola. Indubbiamente (e dopo che, da giovane, era stato uno migliori Figliastri a dar vigore a quel ruolo così schivo, suscettibile, guastafeste dei “Sei personaggi”) lo ritroviamo autorevole, corposo, dialetticamente allertato e luciferino nell’habitus di Angelo Baldovino che è personaggio nodale di una commedia appartenete alla “formazione” mentale e culturale dell’Agrigentino, intinta nel relativismo antidannunziano, mittleuropeo degli studi filologici in Germania. Ed in cui i molti assiomi sui risaputi struggimenti di verità e finzione, di opportunismo e “questione morale” (anch’egli, ohibò), corda seria e corda civile (quella pazza esploderà nel “Berretto a sonagli”) trovano qui un’esposizione viscerale e voluttuosa, “manifesto” di pessimismo e asserragliata modernità.
Come in quasi tutto il repertorio del Pirandello, intellettuale e moralista borghese, fingitore di teoremi esistenziali dinanzi al naufragio della “persona” –la sua disintegrazione identitaria-, anche il”Piacere dell’onestà” pone l’istituzione familiare ad architrave di una dannazione, di una idea di regolarità e appartenenza- grottescamente anelate e necessarie al placet dell’ “occhio sociale”.
L’avvento e l’evento del “matrimonio riparatore” (eccentrico, derisorio, salvacondotto di onorabilità perdute), come in “Pensaci Giacomino” e “Ma non è una cosa seria”, producono conseguenze inattese, incresciose o comunque non pertinenti alla funzionalità del negozio giuridico. Al dunque, Baldovino, uomo dall’oscuro passato e di infausta reputazione, sui cui misteri e carichi pendenti molto ha di che sfoggiare il prim’attore di indicibili, tombali nequizie…
Baldovino-si diceva- va a nozze (di facciata), con la ragazza Agata, già incinta di uomo coniugato e di buona famiglia primo-Novecento, cupo entourage dell’entroterra, nella bass’Italia che già si dispone al fascismo, per salvaguardarne decoro e buon nome. In cambio, avrà emendate le sue colpe, nessuno gli chiederà conto dei trascorsi inverecondi, potrà attraversare il resto della sua vita confortato da questo anomalo sentimento di “amnistia” e contare su vitto e alloggio di prima scelta.
Salvo, come si accennava all’inizio, che mutar di ruolo, nella vita e sulla scena (la loro intercambiabilità usurante…) ha un prezzo mal sostenibile per chi già ha assaporato il piacere di una “propria” onestà, che è coerenza, anarchia corporale e comportamentale. Di lupi solitari.
A quel punto le cose, e considerata la poca “credibilità”, l’ “afa, vera afa” del nuovo habitus, sabotare il sistema cui ci si voleva consegnare, sarà un tutt’uno. Nel miraggio di una impossibile evasione in amore, poiché Angelo ed Agata scopriranno anche quel malnutrito, disidratato sentimento, tra le frustrazioni che li accomunano nella dorata gabbia dei rinnegati.
L’allestimento di Fabio Grossi -già regista variopinto, grumoso e sdrammatizzante, sino ad accenni di vaudeville, in “L’uomo la bestia la virtù”- ha anche in questo caso il dono di una dòmita e faticosa allegria, come di passaggio da una merenda al “Gabbiano” o al “Platonov” di Cecov.
Più che la denuncia o l’indignazione morale, ciò che “preme” è la rappresentazione estetica di tanto e ingrato lavacro. Che, appunto, ha luogo in una sorta di gazebo o salotto trasparente, al centro di un giardino tutto fasullo e fondali da savana che ricalca, con ironia impressionista, quello di Patroni Griffi in occasione di “Improvvisamente l’estate scorsa”, tre anni fa, nello stesso luogo di spettacolo. Una trasparenza che, grazie al gioco di luci (e all’assecondarsi della colonna musicale) si fa opaca, sconquassata, infestata di fiati ed asfittica: quindi simbolica ed esplicita delle vanità che imprigiona. Essendo, lo stesso involucro, ambivalente gabbia-di-matti nell’inoltrarsi di tracotanti tresche, iracondia, ricatti o festini ossequiosi.
Delle compiute potenzialità di Gullotta, già si è detto. E semmai va apprezzata la sua risolutezza nel rimarcare i timbri della capziosità orgogliosa e compulsava;della sensualità sanguigna (ancorché repressa) rispetto ai tramandati modelli di scetticismo cosmico; l’ evoluzione fisiognomica verso una eleganza di gesti e rapsodia di sguardi inerti-rapaci che furono patrimonio di Romolo Valli e Salvo Randone, qui “trapassati” a una imago più umbratile, denutrita, post moderna.
Tra i comprimari si distinguono per fremiti di fatuità dandy, apprensioni e piccinerie materne, Paolo Lorimer e Cristina Borgogni. Cui vanno affiancate le rotondità prelate, come schizzo di Georges Gosz, del monsignore di Martino Duane, cerimoniere di gran casato.