Lucia TEMPESTINI- Punto di (s)vista. La cucina di Medea (l’opera di Euripide di scena a Firenze)

 

Punto di (s)vista

 


LA CUCINA DI MEDEA

 

 

 

 

 

 

 

“Medea” di Euripide

Traduzione Maria Grazia Ciani  -adattamento e regia Gabriele Lavia  -scenografia Alessandro Camera

Costumi Alessio Zero  .musiche Giordano Corapi e Andrea Nicolini -luci Michelangelo Vitullo

Con Federica Di Martino, Simone Toni, Mario Pietramala, Giorgio Crisafi, Angiola Baggi, Francesco Sferrazza Papa    Teatro della Pergola di Firenze

°°°°

Nonostante la bella scena lignea che farebbe presagire una versione di Medea orientata verso l’enucleazione del Mito, per dar luogo a una rappresentazione essenziale, stilizzata ma dirompente, la scena iniziale ci porta in un luogo vagamente ibseniano, una specie di cucina dove due famigli si raccontano a vicenda antefatti, sviluppi e conseguenze della storia. Ci muoviamo forse nelle stanze di casa Alving, dove gli spettri infestano il sangue dei discendenti.

Poiché il tempo si allunga o si accorcia a seconda delle circostanze e degli stati d’animo, come osserva Hans Castorp nel primo capitolo di Der Zauberberg, l’ora e venti in cui viene compressa la tragedia tende a dilatarsi in senso positivo o negativo, plasmata e resa indimenticabile, per esempio, dalla comparsa, verso la fine dello spettacolo, di un vasto bagno illuminato da una luce arancione capace di suscitare uno strano senso di solitudine e inutilità. E’ fornito di pochi elementi essenziali, fra i quali una doccia che Medea – nuda e rattrappita – userà per levarsi di dosso il sangue dei figli.

Potrebbe essere il servizio comune di una fabbrica dismessa, fra strade che si incrociano nella notte, dirette verso il nulla, o verso campi spelacchiati usati come discariche di rottami. Un non-spazio dove si rappresenta la caduta di Medea nel pozzo illune della disumanità.

Quel che convince meno è proprio l’approccio della regia e dell’interprete al personaggio. Forse il corpo di Medea che si agita, si curva e s’incrina disarmonico, accompagnando i lamenti incessanti e monocordi, trascina verso una sovraesposizione molesta la vulnerabilità sociale della caucasica figlia del sole.

Curiosamente gli episodi in cui Medea dovrebbe rivestirsi dell’antico potere, ritrovando dignità e autorità, sono quelli dove invece la struttura archetipica del personaggio tende a sgretolarsi, e le pratiche misteriche a diventare un intruglio, sia pur letale, da fattucchiera gelosa di basso rango. Quasi inevitabile pensare, per contrasto, a Medea e la luna di Giancarlo Cauteruccio (da Lunga notte di Medea di Corrado Alvaro) andata in scena nel 2007 al Fabbricone di Prato.

Lì Patrizia Zappa Mulas (mai querula, sempre cosciente e orgogliosa di quella che potremmo chiamare xenitudine), dopo aver indossato un manto barbarico, tornava la Maga terribile, la depositaria della sapienza ancestrale del suo popolo, scandendo impietosa le fasi della morte atroce del re di Corinto e di sua figlia, divorati dai veleni corrosivi di cui aveva intriso i doni di nozze, per uccidere subito dopo – con la distanza implacabile di una divinità, o di un principio – i bambini avuti da Giasone.

Appare un po’ ondivago anche l’atteggiamento del Coro formato dalle donne di Corinto. Un manipolo di Signore in tailleur anni venti dalle tonalità chiare, con cappellino, indecise fra un atteggiamento anche fisico di curiosità petulante alla Agatha Christie e le consuete grida di disperazione e sciagura, che ogni volta inducono a una rapida fuga mentale verso il Coro alleniano di La Dea dell’amore (con tanto di Cassandra ieratica e minacciosa nel prevedere “un mutuo rovinoso”).

Luciatempestini0@gmail.com