Lo spettatore accorto
QUELLA META COMUNE
“Finale di partita” di Samuel Beckett Compagnia G.o.d.o.t Ragusa
Scena e regia Vittorio Bonaccorso Con Vittorio Bonaccorso, Giuseppe Arezzi, Federica Bisegna, Giancarlo Iacono
Rappresentato al Teatro Ideal di Ragusa
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Giusto 60 anni fa, 3 aprile 1957, andava in scena per la prima volta, in lingua francese, nella quale era stata scritta, al Royal Court Theatre di Londra, quella che viene unanimemente considerata la più dura e spietata delle opere teatrali del drammaturgo irlandese Premio Nobel Samuel Beckett, “Finale di partita”. Per renderle omaggio una delle migliori compagnie teatrali siciliane, il cui nome G.o.d.o.t, acronimo di Gioco-Divertimento-Teatro, rimanda appunto al grande irlandese, il 25 e 26 marzo scorsi ha ripreso la messinscena proprio di “Finale di partita”, che tanto successo di pubblico e di critica aveva riscosso nel 2016, anno di un’altra importante ricorrenza, i 110 anni dalla nascita del drammaturgo.
Il regista, nonchè straordinario interprete di Hamm, Vittorio Bonaccorso firma anche la scenografia, e non a caso. Si sa quanto Beckett tenesse a quella scacchiera di cui si compone il pavimento della stanza in cui i due protagonisti, Hamm, appunto, e Clov, qui un grandissimo e giovanissimo Giuseppe Arezzi, dialogano incessantemente senza dirsi niente, come a giocare una partita già persa fin dall’inizio da entrambi. Bonaccorso, coraggiosamente, ha tolto anche la scacchiera per rendere ancora più grigio e “beckettiano” quel bunker di fine umanità, metafora esplicita e dolorosa di ogni esistenza votata alla sconfitta, allo scacco matto dalla illogicità del vivere.
Perché Beckett non parla di morte, del nulla, parla di vita che tenta di esserci, di riproporsi, di imporsi, anche attraverso il gioco della narrazione e del teatro nel teatro, che Hamm fa a se stesso e al suo servo Clov, ma sempre fallendo miseramente. Perchè a dominare sul suo tentativo di vita sta il nulla e l’impotenza della parola, il suo girare a vuoto e nel vuoto a cui l’individuo è inesorabilmente direzionato. Impiegare il tempo, darne un senso per darsi senso, questo cercano di fare i personaggi di Beckett. Hamm che è paralizzato, simbolicamente inchiodato, immobilizzato nella sua “condizione umana”, paradossalmente è più logico di Clov, libero di andare dove vuole ma sempre fermo lì, accanto al suo padrone, a servirlo ripetitivamente disperandosi, ma, forse, anche a godere di questo estremo nonsense che lo tiene, comunque, in vita.
Anche la carrozzina di Hamm diventa protagonista di questo terribile gioco al massacro, trasformandosi, periodicamente, da strumento di supporto a vana e assurda occasione di svago. In questo balletto macabro e inevitabile, Beckett sembra mettere in campo, per la prima volta, anche Freud, sia nel rapporto succitato tra Hamm e Clov, ma soprattutto nelle due figure genitoriali di Hamm. Collocati da Beckett in due secchi di spazzatura, e privi di gambe, a lasciar pensare lo spettatore di aver concepito già paralizzato il figlio, Nell, la madre, in scena una inappuntabile Federica Bisegna, e Nagg, il padre, deliziosamente interpretato da Giancarlo Iacono, battibbeccano tra di loro ma soprattutto sono oggetto di scherno e di odio da parte di Hamm, impossibilitato a perdonargli la sua infelice condizione di nato, vivente e paralitico. Insomma, non fa sconti Beckett, che, rispetto ad “Aspettando Godot”, sottrae ai suoi protagonisti anche quella fetta di natura che adesso sembra anch’essa solo un ricordo, pari a tutti i ricordi che abitano i giorni vuoti di Hamm e Clov.
Sì, alla fine è chiaro.Beckett ha messo in scena l’avvicinarsi dell’uomo alla meta (parafrasando Bernhard), alla morte (finale dipartita). Il bilancio è deficitario. La vita non regge la vita, neanche con la più fervida fantasia. Forse ad essere umiliata è proprio la cosa più preziosa dell’uomo, la sua intelligenza, esplicitata nella parola, come voleva Wittgenstein, ma da questa tradita. Un testo difficile, “Finale di partita”, non soltanto per i suoi contenuti, ma anche perché impegnativo per attori e regista, che hanno saputo superare alla grande questa ennesima prova di coraggio. A dimostrazione che il grande teatro non è soltanto quello dei teatri grandi, ma soprattutto della grande arte e professionalità che non ha, quando c’è, limiti geografici. Alla fine lunghi e meritati gli applausi per tutti.