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Sauro BORELLI- Un’antieroina d’oggi (“Elle”, un film di Paul Verhoeven)


Il mestiere del critico

 


UN’ANTIEROINA D’OGGI

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“Elle”, un film di Paul Verhoeven

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Non fosse che per i suoi meriti oggettivi (la secchezza del racconto, l’asperità drammatica) il nuovo film Elle del grintoso cineasta olandese (settantotto anni, oltre quaranta di carriera, sedici film realizzati) Paul Verhoeven si potrebbe catalogare come un’altra provocazione destinata ad innescare le solite dispute sulla liceità, gli intenti veritieri o meno dello stesso cineasta. Ma, ad approfondire per il meglio le cose, a guardare ogni dettaglio narrativo di Elle – tratto, con la sceneggiatura di David Birke, dal romanzo-scandalo di Philippe Dijan Oh… – ci si può presto rendere conto che c’è ben altro e certo più significativo da recuperare nell’intrico di fatti, di misfatti entro cui si muove con ghiacciata impassibilità una donna in carriera dall’anima di ferro determinata a dar corso ai suoi impulsi e risentimenti con imperturbabile rigore.

È questa figura, Michèle Leblanc, programmaticamente prosciugata di ogni emozione o slancio affettivo, a condurre il “gioco al massacro” con ex-marito insignificante, madre vanesia, figlio insulsamente egocentrico, amante distratto e succubo, padre odioso e colpevole. Ed è, in ispecie, Isabelle Huppert più che mai dall’atteggiamento algido a incarnare come meglio non si potrebbe la figura campeggiante, autoritaria di un rendiconto scandito con ritmo spietato di tutti i guasti, gli oltraggi fisici, morali di una vicenda senza alcun intento moralistico o ancor meno spettacolare riconducibile, ancora e sempre, alla dominatrice, ambigua Elle, la Lei di ermetico profilo.

Un simile approdo della traccia narrativa che dall’incipit brutale – la violenza culminata nello stupro cui deve soggiacere la pur indomita Michèle – ai successivi momenti di una apparente ricomposizione della vita quotidiana con incalzanti, alterni approcci della medesima Michèle (mossa da chissà quali propositi di rivalsa), risulta qui una sorta di perlustrazione accanita, ma sempre raggelata, di una presunta verità o quantomeno di una qualche confortante dinamica anche dei gesti più incongrui. Isabelle Huppert in questo impervio ruolo dà fondo a tutte le naturali risorse della sua indole e, massimamente, imprime alla figura della dura Michèle un carattere che ne fa, insieme, una vittima e una persecutrice.

Il prosieguo finale di simile peregrinazione tra sconcertanti confronti dei personaggi evocati, ove con sapiente precisione ora con allusive rifrangenze polemiche risulta così, passo passo, una progressiva scoperta di particolari svolte di un dramma costantemente sull’orlo d’una ulteriore mascheratura. Con Michèle più che mai risoluta a dare un volto, un significato al bruto mascherato che l’ha stuprata e offesa con inesplicabile spietatezza. E tutto si risolve in effetti nella pura constatazione che, aldilà di tutto, è proprio nell’ordine, diciamo pure, naturale delle cose umane il perdersi e il ritrovarsi oltre ogni sopraffazione. Per giungere a questo esito problematico, tanto un cineasta scafato come Paul Verhoeven (cui si devono i trasgressivi Basic Instinct, Atto di forza, Robocop) quanto un’attrice consacrata come Isabelle Huppert (dalla carriera sterminata, premiata dovunque) hanno profuso, per l’occasione, portenti di energie espressive e magistrali esercizi mimetici.

Del resto, particolarmente la Huppert, fin da una delle prove degli inizi come La merlettaia (1978) di Claude Goretta, ha saputo conquistare, per sé sola, una dichiarazione di stima come la seguente: “… mostra di possedere un misto di grazia e forza drammaturgica che i capelli rossi, l’incarnato diafano e lentigginoso e gli occhi acquosi contribuiscono a rendere  di volta in volta sempre più aderente ai personaggi, dall’angelico al diabolico”. Proprio come in questo inquietante Elle una antieroina d’oggi intangibile e desolata. Così, dunque, l’esperto mestiere di Paul Verhoeven si consolida, in Elle, in personalissimo stile mentre l’eclettica attitudine di Isabelle Huppert tocca per l’occasione la pienezza interpretativa di una compiuta performance.