Il mestiere del critico
RAZZISMO ALLA NASA
“Il diritto di contare”, un film di Theodore Melfi
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Correvano gli anni Sessanta. John Fitzgerald Kennedy era il prestigioso Presidente degli Stati Uniti. La NASA, il potente organismo spaziale americano è in affannosa rincorsa per annullare l’imbarazzante gap tecnologico nei confronti della più efficiente macchina avveniristica sovietica, già impostasi come migliore protagonista con la trionfante impresa del primo cosmonauta Yuri Gagarin. Tutto sembra dimostrare che ormai problemi, questioni di convivenza all’interno del più ricco Paese dell’occidente siano superati o in via di sollecita soluzione. In ispecie per quel che concerne i diritti civili, le possibilità sociali e, in particolare, la sempre drammatica emergenza della disuguaglianza razziale.
In effetti, quei primi anni Sessanta segnano, anzi, il punto più acuto di un contrasto – con leggi e pratiche riaffermanti (specie negli stati del sud) proibizioni, sanzioni rigorose – tra bianchi e neri sostanzialmente inalterato con rapporti di intolleranza totale tra il predominante potere WASP (cioè degli anglosassoni di agiata condizione) e la sterminata comunità afroamericana.
Ed è giusto in questo agitato scorcio storico che prende avvio la vicenda riferita nel libro di Margot Lee Shetterly Hidden figures (figure nascoste) ove si rievoca l’emblematica esperienza di tre scienziate nere che, precettate dalla NASA per approntare la strumentazione teorica e funzionale per il primo lancio extraterrestre di John Glenn (1962), furono drasticamente discriminate nonostante il loro prezioso lavoro.
Su quello stesso libro il cineasta (bianco) Theodore Melfi ha imbastito poi questo suo film dal titolo italiano Il diritto di contare, in cui le tre scienziate nere del passato (due ormai scomparse, una ancora viva e vegeta a novantotto anni) ripercorrono le vicende a volte mortificanti, a volte semplicemente ottuse delle vessazioni, delle ingiustizie, la chiusura razzista subita proprio mentre quelle stesse scienziate davano il loro contributo più prezioso al prestigio scientifico degli Stati Uniti.
Qui, ne Il diritto di contare, prendono corpo i molti episodi, i quotidiani sgarbi che le tre donne afroamericane – un ingegnere e due esperte di computer – dovettero patire, anche aldilà del fatto che il loro contributo geniale per la riuscita del volo spaziale si riveli presto insostituibile, determinante per il buon esito della arrischiata impresa di John Glenn, il quale non fidandosi del pur sofisticato calcolatore IBM ebbe a chiedere significativamente che la traiettoria della sua navicella fosse controllata “da quella ragazza intelligente”, ovvero Dorothy Vaughan (interpretata per l’occasione da Ottavia Spencer).
È vero, Theodore Melfi ha in qualche misura romanzato un po’ con dettagli corrivi (i bagni separati per le donne di colore, il gesto solidale di Kevin Kostner in favore delle scienziate discriminate) e digressioni fin troppo pacate sulla consuetudine generale di quel periodo, di quella caratterizzazione dell’ambiente della NASA nel secondare modi e segni di un razzismo manifesto. Ciononostante quel che esce dal film Il diritto di contare si sostanzia di una precisa volontà di testimoniare un momento, una fase storica americana tuttora drammaticamente divampante.