Il mestiere del critico
TORNANDO A CASA
“Rosso Istanbul” di Ferzan Ozpetek
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Il poco meno che sessantenne Ferzan Ozpetek approdato in Italia dall’originaria Turchia risulta oggi ormai “legittimato” italiano a tutti gli effetti sia per la prolungata permanenza nel nostro Paese (risalente al 1978), sia per l’accredito di ben undici lungometraggi, dall’opera prima Il bagno turco, seguito da Harem Suare, Le fate ignoranti, per culminare ora col nuovo Rosso Istanbul. E appunto di quest’ultima realizzazione vogliamo parlare per due particolarità che la caratterizzano: è uno dei pochi lavori di Ozpetek girati interamente nel suo Paese e, secondariamente, è tratto dall’omonimo libro autobiografico scritto dallo stesso cineasta
Sono, queste, due componenti essenziali, poiché la menzione di Istanbul nel titolo indica un preciso intento non tanto, non solo di immergersi nell’ambiente fisico come nel clima psicologico della città mediorientale, quanto di evocare, tramite vicende, personaggi di sfuggente e pur significativa fisionomia, l’indole antica e insieme modernissima della metropoli odierna. C’è in questa “lettura” problematica del volto, dell’anima di Istanbul la determinata volontà di rappresentare al contempo una storia emblematica e un’esperienza ai limiti del fantastico. E ancora l’intrusione di figure, di scorci cittadini costantemente frammentati in emozioni altalenanti tra nostalgia e prospettive destabilizzanti. Istanbul, insomma, come sofferta memoria e commosso sentimento esistenziale.
Ciò che peraltro si consolida sullo schermo è un divagare continuo, assillante tra personaggi segnati da vicissitudini trepide secondo una progressione narrativa sempre in bilico tra premonizione e speranza. Il dramma – ché di dramma in effetti si tratta pur temperato di sensazioni sottili – su cui si regge con toni leggeri, cromaticamente allettanti (una Istanbul insieme rutilante e grigia) si intriga in eventi quotidiani e contingenti novità individuando figure e fatti di esotica suggestione. Questi, in sintesi, i giorni, le evenienze di volta in volta affrontati da Orahan Sahin, scrittore già celebre favolista di stanza a Londra, viene precettato dall’amico, anch’egli scrittore, Deniz Soysal (e per giunta cineasta), con il compito di dare aiuto per portare a compimento un libro in fieri fino allora mai terminato.
Appena giunto a Istanbul, il soccorrevole Orahan incappa in una situazione quantomeno strana. L’amico Deniz è scomparso e misteriosamente non se ne sa più niente. Nel frattempo, però, il pur disorientato Orahan trova consolante rimedio riacquistando l’amicizia dei lontani compagni di gioventù – la bella Neval e il seducente Yusuf – instaurando con questi ultimi una sorta di perlustrazione affettiva del passato, destinata tuttavia a ben deludenti esiti. La imprevedibile scomparsa di Deniz ha lasciato un segno malinconico nel soggiorno di Orahan a Istanbul e persino la leggera patina di ironia che caratterizzava quel ritorno in patria si eclissa, lasciando per l’aria soltanto la cocente perdita di ricordi sfocati. E una realtà tutta attuale di quando in quando turbata da segnali di oppressione allarmanti: “le madri del sabato”, il profugo curdo ecc.
Ciò che in fondo emerge (specie nella seconda parte del film) è in prevalenza un divagare un po’ verboso tra una sentenziosità ostentata e una sofisticata raffigurazione ambientale che riducono l’assunto di Rosso Istanbul ad una rivisitazione certo attenta, circostanziata, ma in buona sostanza piuttosto estetizzante. Un elemento comunque di gran pregio caratterizza Rosso Istanbul: gli interpreti dei ruoli maggiori – Holit Ergenc (Orahan), Nejat Isleri (Deniz), Tuba Buykustun (Neval), Mehemet Gunsur (Yusuf) – risultano qui un complesso espressivo di magistrale duttilità.
Un risultato, questo, che testimonia, se non altro, la sapienza collaudata di Ozpetek nel muovere il lavoro degli attori. Comunque, come prova di appello, dopo Rosso Istanbul è già in via di realizzazione il nuovo film dal titolo Napoli velata, in preventivo per il prossimo maggio. Auguri!