Punto di (s)vista
SUGGESTIONI BERLINESI
NELLE NOTTI D’ ESTATE SHAKESPEARIANE
“Romeo e Giulietta” di William Shakespeare. Traduzione di Salvatore Quasimodo. Regia di Andrea Baracco Scene di Marta Crisolini Malatesta Costumi di Irene Monti Luci di Pietro Sperduti Musiche di Giacomo Vezzani
Con Lucia Lavia, Antonio Folletto, Alessandro Preziosi, Elisa Di Eusanio, Gabriele Portoghese, Giacomo Vezzani, Mauro Conte, Laurence Mazzoni, Dario Iubatti, Woody Neri, Roberta Zanardo, Daniele Paoloni, Alessia Pellegrino
Teatro Eliseo di Roma sino al 5 marzo
Scritto con la collaborazione di Irene Fortini e Marina Tiberti
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Le dimore delle famiglie patrizie Montecchi e Capuleti, avvinghiate in un’ostinata rivalità sono rappresentate sul palcoscenico da due grandi forme cubiche contrapposte, in plastica e pléxiglas, capaci di contenere percorribili e scale scheletriche in metallo. La parete interna rivolta al pubblico, in ciascuna delle due costruzioni, risulta opaca e si riveste, nel corso dello spettacolo, di una moltitudine di sfumature luminose, dal grigio ferro a un viola vagamente luttuoso, sottolineando con le variazioni cromatiche le diverse fasi del dramma shakespeariano.
Sonorità berlinesi alternate a motivi motivi italiani d’autore (ricorre Amore che vieni, amore che vai di De André utilizzata da Romeo per estroflettere il suo pollutante sentimentalismo adolescenziale), insieme ai costumi capaci di ibridare particolari elisabettiani, spesso colorati e/o luccicanti, con elementi in pelle nera che richiamano lo stile interpretativo di certi collettivi teatrali tedeschi anni ’70 come la Schaubhne am Halleschen di Peter Stein, vanno a comporre una versione hi-tech e parzialmente espressionista e underground di Romeo e Giulietta, a tratti purtroppo sbilanciata verso modi e vezzi pop tesi a coinvolgere il pubblico giovanile.
Nonostante una sensazione di déjà vu che coglie in vari momenti lo spettatore, l’allestimento riesce quasi sempre a non collidere con la magia, sempre ritornante, di continuo evocata e invocata, della Notte dalle ciglia nere. Va detto che la ricerca di soluzioni facili investe soprattutto il personaggio di Romeo, proposto per lo più come un ragazzetto in preda al ribellismo senza causa risalente agli anni ’50, o comunque ad astratti furori sociali, familiari, sentimentali che lo conducono a morte senza aver attraversato alcuna linea d’ombra.
Motore e anima dello spettacolo senza dubbio il Mercuzio dello straordinario Alessandro Preziosi. Figura della Soglia, umana e animale, carnale e fantasmatica, poetica e sulfurea, maschile e femminile, Mercuzio si manifesta ogni volta accompagnato da una nebbia che suggerisce la dimensione del Sogno, e di sogni, anche irriverenti e osceni (come Puck in A Midsummer Night’s Dream), più incostanti del vento, che ora accarezza i ghiacci del Nord ora sfiora le coste umide del Sud, discorre senza sosta, attuando un trascinamento fabulatorio del mondo onirico nell’unidimensionalità del reale inteso come materia, oggetto, secondo l’etimologia del termine sanscrito rah. Il suo rauco, inquieto racconto delle imprese della Regina Mab resterà fra gli episodi memorabile di questa stagione:
Intorno al collo ha fili di luna; raggi delle ruote del suo carro son fatti di esili zampe di ragno, il mantice di ali di cavallette, le tirelle della più sottile ragnatela, il manico della frusta di un osso di grillo, la sferza di un filamento impercettibile; il cocchiere un moscerino in livrea grigia. Il suo cocchio un guscio di noce, lavorato dal falegname scoiattolo o dal vecchio verme, da tempo immemorabile carrozzieri delle fate. In questo arnese essa galoppa da una notte all’altra attraverso i cervelli degli amanti, e allora essi sognan d’amore.
Altrettanta emozione suscitano l’incontro fra i due giovani durante la festa in maschera nel giardino dei Capuleti (con Giulietta mutata in un’immagine di Hoffmann, o nella donna/automa di Metropolis), e il monologo che la Giulietta di Lucia Lavia tesse in un crescendo di vertigine e disperazione prima di bere il filtro preparato da fra’ Lorenzo. Isolata dalla luce dura e concentrata di un proiettore bianco, i capelli inondati di polvere sepolcrale, pallidissima icona da ghost story (e, più tardi, su una lettiga coperta di petali, immagine superbamente preraffaellita), Lucia Lavia innalza e addensa, con virtuosismo inarrestabile, un forsennato stream of consciousness, dove si fondono angoscia e passione, coraggio impetuoso e presagio della fine.