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Sauro BORELLI- L’eroismo quotidiano (“La battaglia di Hacksaw Ridge”, un film di Mel Gibson)

 

Il mestiere del critico

 


L’ EROISMO QUOTIDIANO

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“La battaglia di Hacksaw Ridge”, un film di Mel Gibson

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Le vie del Signore – si sa – sono infinite. E anche quelle del cinema. Ne è una prova lampante la nuova sortita di Mel Gibson già alcolista violento, antisemita, misogino e ora una specie di paladino dei buoni sentimenti, dei personaggi eroici fino alla santità emergenti dal suo film La battaglia di Hacksaw Ridge, prima proposto a Venezia 2016 e adesso candidato al prossimo Oscar con quattro nominations (compresa la regia).

A ribadire in modo inequivocabile l’attuale propensione del grintoso autore-interprete del lodevole Braveheart (1966) si incarica lui medesimo che, in una recente intervista, così spiega la sconvolgente metamorfosi: “Sono un povero diavolo, pratico poco e pecco molto, anche se vorrei avere una fede incrollabile e una capacità di impegnarmi e amare, perché l’amore è forse ciò che più di ogni altra cosa avvicina a Dio”.

La conversione sorprendente di Mel Gibson, d’altronde, è presto spiegabile perché fondamentalmente legata, appunto, alla traccia narrativa cui si rifà La battaglia di Hacksaw Ridge incentrata sulla personale odissea di Desmond Doss, medico molto pio proveniente dalla Virginia appartenente alla Chiesa cristiana avventista del settimo giorno che, nel 1942, nella guerra in corso nel Pacifico contro il Giappone, si arruolò nell’esercito alla sola condizione di non imbracciare alcuna arma o di sparare comunque a chicchessia.

Cosa evidentemente di ardua difficoltà, visto che il buon Doss – più tardi, a fine guerra, premiato con la massima onorificenza militare – fu risolutamente sbalestrato a Okinawa, cioè nel fulcro dei più sanguinosi scontri tra americani e giapponesi. E qui, benché inviso ai suoi commilitoni perché imbelle (anche col nemico), si prodigò giusto nella battaglia di Hacksaw Ridge fino ai limiti delle sue forze, portando in salvo, lui così smilzo, ben 75 compagni feriti calandoli, uno a uno, da un aspro dirupo.

Il fatto in sé, anche se assolutamente veritiero, non risulta la parte sostanziale di questa singolare prova di Mel Gibson che, animato da sacro fuoco di redenzione dai passati stravizi e smargiassate, si imbarca altresì nell’evocare il background certo non facile del probo Desmond Doss, prima ancora delle sue gesta eroiche a Okinawa tormentato da una fidanzata scontenta del suo impegno pacifista (il primo obiettore di coscienza americano) e dalle rampogne costanti del dispotico padre ottusamente intollerante verso quel figlio infido.

E qui c’è da registrare un netto divario tra la prima parte de La battaglia di Hacksaw Ridge e il seguito intieramente dedicato – more solito – a cruentissime scene dello scontro scatenato. Cosa che in qualche modo contraddice platealmente i buoni propositi di questo cineasta più incline ai toni forti, alle digressioni violentissime piuttosto che a soluzioni drammatiche più meditate.

Ma anche in questa circostanza c’è chi trova giustificazione a simile contraddizione, sottolineando alcuni aspetti caratteristici del suo cinema: “Lui che per molti ha incarnato il simbolo del macho insensibile, reazionario… nella propria attività di regista ha sempre dimostrato di volersi dedicare agli ultimi…: dall’insegnante sfigurato de L’uomo senza volto al ribelle scozzese William Wallace di Braveheart fino al giovane Maya di Apocalypto”.

Giudizio subito ribadito con calore dallo stesso Mel Gibson che non esita a dichiarare: “Ho sempre scelto personaggi straordinari, perché è ciò che i film dovrebbero raccontare: vicende di persone che escono dagli schemi e hanno esperienze diverse dalla gente comune… Quelli come Doss sono i veri eroi, cui bisogna ispirarsi, non gli sciocchi personaggi in calzamaglia che ci propina Hollywood”.

La battaglia di Hacksaw Ridge se da un lato tende a emendare per Mel Gibson errori e sfuriate intollerabili di dieci anni fa, dall’altro esalta al massimo grado l’eroismo quotidiano (e non solo in guerra) del medico pacifista Desmond Doss che, tra l’altro, aveva rifiutato a lungo l’idea di un film sulla sua vita e che, soltanto nel 2004 (due anni prima della sua scomparsa) accettò che il controverso progetto si realizzasse, ben determinato affinché il compenso per il suo via libera fosse assegnato alla sua abituale parrocchia.

Certo, la carneficina che ampiamente invade lo schermo induce a qualche perplessità sui buoni propositi di Mel Gibson, ma anche un relativo ravvedimento non si nega a nessuno. E, in ispecie, a questo ritrovato Braveheart.