Il mestiere del critico
IL MONDO VISTO DALL’ AUTOBUS
“Paterson”, un film di Jim Jarmush
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Jim Jarmush ha poco più di sessant’anni (è nato ad Akron, Ohio, nel 1953). Dai primi anni Ottanta pratica un cinema tutto eccentrico, eterodosso. Dopo Vacation e Stranger than Paradise, il successivo film, Daunbailò, gli regala una notorietà fatta di simpatia, affezione, grazie al trio di interpreti di eccezione quali Tom Waits, John Lurie e lo strepitoso Roberto Benigni degli inizi. Poi, è tutto un precipitoso confronto con opere sempre al di fuori di ogni canone convenzionale: da Mistery train a Dead man, a Night on Earth.
E il suo approccio originale a spunti emotivi ispiratori è tanto e tale che si guadagna, a pieno titolo, un lusinghiero epitaffio critico: “È autore dallo sguardo surreale e penetrante, capace come pochi di mescolare tragico, comico e patetico; e raffinato conoscitore delle musiche rock, rap, free jazz che spesso utilizza nei suoi film”.
Sulla base di quanto detto finora, Jarmush si è ripresentato a Cannes 2016 col suo nuovo film dal titolo Paterson. Si tratta di un’altra realizzazione dai connotati singolari, a cominciare dal nome Paterson, cittadina del New Jersey che, oltre ad aver dato ospitalità al poeta William Carlos Williams (e, in subordine, ad Allen Ginsberg e all’anarchico italiano Gaetano Bresci) indica in Cell Paterson (ovvero lo stesso nome) il protagonista della vicenda piana e comunque “poetica” d’un giovane autista di autobus di quando in quando scrittore di liriche digressioni sul fluire quotidiano dell’esistenza.
Ad essere più precisi i momenti contingenti della normalissima vita di Paterson e della sua avvenente moglie Laura (una quieta casalinga dedita all’arte e ai dolcetti) sono contrappuntati come si diceva dal lavoro di Paterson, il suo ininterrotto servizio a bordo di un autobus e, nei ritagli di tempo, all’assiduo impegno nello scrivere poesie su quanto gli accade – o forse non accade – intorno a lui. E a tale abitudine si attiene rigorosamente, salvo le passeggiate serali, insieme alla moglie e a un fedelissimo cane, per gustare una birra nel bar consuetudinario.
Il tessuto narrativo è tutto qui. Ma il “pregio delle piccole cose” che Cell Paterson celebra nei suoi versi decontratti e finanche banali – come quelli sui fiammiferi casalinghi “pronti ad infiammarsi per accendere la sigaretta della donna che ami” – non si esaurisce in un rendiconto monocorde dell’affetto per la bella Laura e anzi si consolida alla distanza in una visione del mondo del tutto acquietata, tranquilla. Ovvero, per il calmo, imperturbabile autista di autobus la felicità consiste, come è stato giustamente osservato, “nel saper ascoltare la voce, leggera e fugace dell’esistenza”.
A guardare bene, del resto, il tempo, le questioni cui si dedicano il quieto Cell e la volitiva Laura non risultano poi così insignificanti (lei dorme nuda, dipinge e cucina dolcetti; lui guida l’autobus, compone poesia, passeggia col cane, beve birra). Tutti gesti, consuetudini apparentemente inutili e, in effetti, determinati da una concezione oggettiva del giorno per giorno che, forse non appaga, ma si prospetta ancora e sempre inalterata, irriducibile per l’eternità. Se non è una meta plausibile questa che altro può essere, se non la moderata soddisfazione di vivere, perfino di sopravvivere, senza traumi.
Certamente, non è simile strategia stoica ciò cui si rifà Jim Jarmush, anche se taluni spunti narrativi occhieggiano in Paterson come una costante ricerca di una decontratta raffigurazione di personaggi, vicende al di fuori o al di sopra di rituali drammatici abituali. Tanto nel menzionato Daunbailò quanto nell’umoristico Stranger than Paradise il filo rosso sotterraneo di un vitalismo incongruo, senza scopo dà la misura concreta di un cinema che sfugge ad ogni catalogazione, pur affermandosi per la congenita cordialità espressa dall’ironia schietta dell’intelligenza.