Il mestiere del critico
VECCHI E NUOVI TEMPI IN PIPPO DI MARCA
Il dramma Vecchi tempi di Harold Pinter nella messa in scena di uno storico autore dell’avanguardia romana – A Roma, al Teatro Palladium.
****
Credo che l’impegno di rimettere in scena Pinter sia quello di sdrammatizzare il più possibile, evitando il cosidetto “dramma alla Pinter” come moralistica visione del mondo. A noi il compito di individuare questo humour di situazione intenzionale e porlo in luce sulla base di tre fondamentali concezioni, a loro modo distinte ma riconducibili, comunque, ad unità. La prima sta nel saper decodificare le intenzioni scritturali del drammaturgo Pinter, che in Vecchi tempi esce dalla sintonia dell’eros omosessuale tra le due donne, superando la visione parziale e riduttiva del dualismo, e con l’ausilio dell’uomo, terzo elemento eterosessuale, realizza la triade; la seconda concezione sta nella qualità segnica del lavoro interpretato nell’allestimento realizzato da Di Marca-regista; la terza peculiarità è la capacità di ascolto dei fruitori in platea. Ed è proprio riassumendo l’antefatto della trama che possiamo cogliere la sublimazione delle passioni, quali elementi rivelatori di meccanismi che regnano nell’intimo.
Attraverso la dimensione dei trascorsi ricordi e dietro l’apparenza di una edonistica commedia di genere, l’autore Harold Pinter realizza il dramma linguistico-esistenziale d’una società in forte mutamento, da cui emerge tutta la drammaticità dell’incomunicabilità del linguaggio di personaggi contemporanei ossessionati da sfrenatezze eroticamente allusive. Ascoltando il testo notiamo un che di voyeuristico, nelle sue pieghe più sensuali, simile ad una sorta di livellamento del linguaggio che continuamente alimenta l’equivoco tra senso della vita e finzione della stessa, tra bordello e salotto, edonismo dei sensi e passione. E non deve credersi che sia, questo, uno smarrimento dei parametri moralistici dell’autore, ma altresì debba configurarsi come dimensione di decifrabile humour quale elemento oggettivo attraverso cui veicola situazioni angosciose, claustrofobicamente collocate in una stanza-mentale dalla quale non sarà più possibile uscire.
Pippo di Marca in questo spettacolo propone una eccellente allestimento metateatrale, articolato intorno a tre analogie strutturali del testo. Nella prima analogia notiamo il rincontrarsi – dopo tanto tempo – di tre personaggi che rivivono le loro trascorse pulsioni paragonabili ad una reiterata, irrisolta psicopatologia della memoria. Con le loro tautologie discorsive “pinteriane” tentano di ricomporre un puzzle di trascorsi comuni bisogni sessuali, in cui si lascia intuire quella dose di humour nell’illogicità della comunicazione; nella seconda analogia notiamo il razionalismo della scena, la tipica stanza della memoria in bianco e nero come luogo mnemonico della psiche; la terza analogia evidenzia il lavoro del regista Di Marca simile ad uno psicoterapeuta lacaniano (che si cimenta in transfert di lavoro riguardo la rilettura e reinterpretazione delle parole del testo in chiave di filologica) il quale da quelle tautologie linguistiche costituite di pause, silenzi, sollecitazioni, fa emergere l’indiscussa originalità della oblatività genitale celata nei “piaceri” in cui si distinguono e si pavoneggiano metaforiche avances all’interno della triangolazione dirompente del sottotesto.
Ne esce fuori un ambiguo rapporto a tre giocato sull’onda di ricordi allo specchio, visione speculare di un passato comune deformato da una serie infinita di riflessi, simili ad un chiasma voyeur dove lo sguardo obliquo alimenta i ricordi non allineati nella continuità sostanziale di questo triplice rapporto, lasciando vuoti discorsivi e conflitti irrisolti da colmare, fino a svelare la condensa di oscurità e di nevrosi che investe i personaggi, incapaci di ricostruire un ricordo in maniera oggettiva. La complessità del testo è portata avanti con vigilata accortezza nell’allestimento teatrale realizzato da Di Marca, il quale presentifica il ricordo e il passato correlato al presente attraverso le forme del doppio, dell’ambiguità e dell’intrusione.
Convince l’eccellente professionale prestazione degli interpreti che sanno ben sfruttare i luoghi deputati della scena costituiti da due femminili bianchi divani e da una poltrona esornativa luogo, principalmente, deputato del personaggio maschile. Elementi di arredo intorno ai quali la triade trova il loro spazio con una geometria di essenziali movimenti compositivi che fa assumere posizioni intimistiche con sorprendente naturalezza. Si sorseggia anche cognac tra silenzi e dialoghi saturi di sottili perversioni più delle volte con linguaggio crudo e immediato pieno di edonistici compiacimenti.
L’illuminazione a volte diffusa, fluttuante come l’immagine del manifesto, spiccatamente psicologica, da sogno onirico, scorpora, profila e amplifica movimenti e posture dei personaggi, specialmente quando la composizione, su linea diagonali scivola verso il motivo sensuale di carnagioni opulente, nere calze e lingerie esornative. Il contrasto tra leziosità, ostentazione di pulsioni e corteggiamento crea effetti di magica comicità su quelle situazioni, crudeli e al contempo spiritose, di teatro dell’assurdo.
Del teatro di Pinter non si capirà profondamente la sua arte finché non si riconoscerà che tra i suoi caratteri fondamentali vi è un celato, spesso evidente, senso di humour. Si direbbe che la vita di questi personaggi appartenga al passato e che essi, potendo tornare a scegliere, non muterebbero quei loro “trascorsi ardori” giovanilistici, spinti dal rammarico di una condizione esistenziale che si profila ahimè immutabile. Prolungati applausi per i bravissimi interpreti e per Pippo di Marca “uno dei migliori registi teatrali della sua/mia generazione, anche raffinato teorico che sa dare regola alla pratica del laboratorio metateatrale, della scena contemporanea in un’altalena di quadri scenici “al presente” montate a ridosso di quadri “al passato”, come flashforward relativi a interruzione di una sequenza cronologica per anticipare eventi che appartengono al seguito della storia, come nei vecchi flashback da sceneggiatura cinematografica. E non a caso: Pinter è stato anche un ottimo sceneggiatore.
Vecchi tempi
di Harold Pinter
traduzione Alessandra Serra regia Pippo Di Marca con Fabrizio Croci (Deeley), Francesca Fava (Kate), Anna Paola Vellaccio (Anna) scene e costumi Laboratorio Florian Metateatro
assistente alla regia Diletta Buschi direttrice di scena Marilisa D’Amico luci Renato Barattucci registrazioni audio Globster grafica AltraStella organizzazione Ilaria Palmisano produzione Massimo Vellaccio curatrice Giulia Basel
Produzione Florian Metateatro – Centro di Produzione Teatrale