La memoria
CARISSIMO DARIO . …DI MULTIFORME INGEGNO
E’ morto stamani, lucidissimo e intrattenendo i medici, a novant’anni
****
E’ stato irresistibile, beffardo, strabiliante anche in punto di morte: il nostro grande Dario, incapace quasi di respirare, in piena crisi polmonare, eppure- sostiene il medico che lo ha assistito- ancora capace di parlare, affabulare, divagare – gli bastava un filo di voce- divorando argomenti, conoscenze, personali esperienze che “avevano dell’impressionante, dell’enciclopedico”. Senza che il degente se ne rendesse conto, come se fosse ancora sui praticabili di scena a confabulare e dare lucidi consigli ai suoi compagni d’avventura.
Una sorta di Molière al contrario, che non aveva in uggia la scienza di Ippocrate, e che a cerusici e infermieri amava rivolgersi con amabilità, confidenziale rispetto, nessun cedimento alla consapevolezza di essere giunto al suo terminal di finecorsa.
Caparbiamente, giocosamente anarchico, oltre ogni ragionevole dubbio. Istrione sublime, ma mai buffone, guitto ‘insurrezionale’ e dispensatore di vitalità, capace di ‘reinventare’ il rapporto pubblico-interprete sulla base non dell’esibizione, ma del dialettico coinvolgimento, della sinergia reciproca. Per tutto il Novecento, solo tre grandi ‘artefici’ hanno affermato il teatro ‘affermando ed interpretando unicamente se stessi’, mutevoli in una sorta di identità non barattabile con alcun personaggio: Eduardo De Filippo, Carmelo Bene, Dario Fo (ciascuno diversissimo dall’altro, anzi antitetico per stile, umanità, espressione)
Uno sghignazzo pure alla morte? Non credo. Dopo la scomparsa della compagna Franca Rame, anche Dario aveva imparato ad averne rispetto, distacco, distanza di sicurezza.
Trovando negli affetti più intimi (il figlio, la nipote) sostegno e carburante per continuare ad essere solerte – “sino all’ultimo respiro”?- nei doveri che la vita pubblica ed intellettiva ‘esigeva’ a quest’uomo di novant’anni, le cui opere, iniziative, realizzazioni avevano il marchio rinascimentale di quel ‘multiforme, irruente ingegno ’ non più rintracciabile in epoca di specializzazioni e compartimenti stagni, condotti sino alle estreme conseguenze: l’esclusione del ‘non sapere’, del top secret, dell’abisso fra nativi digitali e il resto dei viventi.
Resta imponente, impressionante, quasi soggiogante il corpus drammaturgico dell’artista, nel suo centinaio di testi teatrali, che gli valse (nel 1997, dopo una prima candidatura risalente al 1975) il tanto contrastato Premio Nobel per la Letteratura e la conseguente consacrazione internazionale: con opportunità di lavoro, consulenze, lezioni, supervisioni che non ebbero più confine di lingua e geografia. Primo paradosso (del ribaltamento) per un autore che (come tramanda l’artiglieria dei suoi ‘grammelot’) nutriva, di suo, una natura impetuosa e solare, una struttura linguistico-sperimentale (sconvolta, disarticolata) affluente dai nei mille dialetti, accenti, sonorità della tradizione italiana – a partire dalla sempre amata (studiata e ristudiata) commedia dell’arte. Riflessa e corroborata da quella particolare fascinazione che s’era impossessata di Dario dopo la giovanile scoperta delll’universo del Ruzante, e della successiva ‘indagine’ svolta fra ciò che restava (di riesumabile, di riabilitabile) dei secoli degli zanni e dei giullari.
Con una precisazione storica a questo punto imprescindibile: l’appartenenza di quelle maschere ad uno sperduto universo che, più di ogni altro, aveva saputo contaminare, arricchire, far scintillare il meglio della cultura ‘alta’ e cultura ‘bassa’ (classificazioni tuttavia di comodo) derivante dalla tradizione medioevale. Per quel tanto che della cultura trobadorica e della ‘chanson de geste’ (di origine transalpina) s’era poi ingigantito a contatto con il mecenatismo, l’incitamento, il crogiolo delle lettere e delle arti fiorito in Sicilia (intorno al 1200) alla corte di Federico II. Liddove il ‘teatro di narrazione’ (o quello che adesso celebriamo tale, plaudendo a Baliani, Celestini, Paolini) ebbe inizio mediante il progressivo intersecarsi degli artisti di corte fra giullari- interpreti ed esecutori dal guizzo fescennino- e trovatori – in genere, intellettuali, letterati, poeti dall’eloquio elegante e laudativo, specie all’indirizzo di aristocratiche e damigelle d’onore.
Strano a dirsi: Dario Fo non fu che il prosecutore, consapevole, di una genìa di girovaghi e ospiti di corte iniziata con Ciullo D’Alcamo (e il suo “Contrasto”), Ruggeri Apugliese (e il ciclo dei “Vanti”), Matazone di Caligano (autore del “Detto dei villani”): quando all’intrattenitore di riguardo era concesso incantare le folle ed i notabili graditi al sovrano, con i prodigi della fantasia ‘al potere’ e del sapere sconfinato (anche a costo di sperticarsi in “frottole e visioni”, secondo una metodologia che durerà almeno sino ai poemi di Ludovico Arisosto, ma io azzarderei anche Borges e il misconosciuto Cavazoni).
Successivo paradosso per un artista come Dario che, con il mutare dei secoli, aveva impiegato ogni sua energia per riscattarsi da ogni forma di potere e sudditanza, ovvero dimostrare quanto il Re sia nudo (e crudo) e che il ruolo dell’interprete “ha da essere di parte”, ma da una sola, quella degli oppressi, dei derelitti, degli emarginati – sino all’ingiuria della follia e della tentata ‘dannazione di memoria’ (come nel caso di Campana, Artaud, Alda Merini).
Quante vite ha vissuto Dario, tra palcoscenico, studio di pittura, responsabilità di impresario e trasferte all’estero (ove tutti lo reclamavano senza mai traduzione)? “Una più straordinaria dell’altra, una dentro l’altra, riflesse come in un gioco di specchi capace di moltiplicare il tempo e le storie” diceva di se stesso, ancora incredulo di quanta esagerata fortuna avesse accudito “quel figlio smunto, indisciplinato, stravagante d’un povero capostazione del varesotto che tremava all’idea di immaginarlo a Milano, preda di una città per soli cummenda
Tutto andò invece per il verso giusto, specie dopo l’incontro con la bellissima Franca (“mai creduto che mi desse retta”), che il teatro e lo spettacolo lo aveva nel sangue, e bene in testa, per tradizione familiare e personale intelligenza. Tra gli anni 50 e 60, nascono così i primi copioni del “teatro comico” e debitamente surreale (nel senso più stralunato, derisorio e meneghino ancora possibile), recitati tra mille peripezie logistiche ed economiche: “Gli Arcangeli non giocano a flipper”, “Chi ruba un piede è fortunato in amore”, “La signora è da buttare”, tutte visioni di un’Italietta svenevole e illusoria che già deragliava dai ‘fabulosi’ anni del boom ed affluiva, sera dopo sera, nella piccola berlina del Derby Club, ove già si esibivano Gaber, Jannacci, i Gufi, Franco Nebbia, Beppe Viola e persino Umberto Eco.
Seguì indubbiamente il sogno (con relativi ‘sghei’) della popolarità televisiva e l’intoppo di “Canzonissima” del ‘62 che costò a Dario e Franca la messa al bando per 14 anni dalla Rai democristiana. Ma già nel nel ’69 è tutto un deflagrare del “Mistero Buffo” (alla storica Casina Liberty) in cui l’autore recupera, come spiegavamo all’inizio, la lezione dei fabulatori, dei cantastorie, reinventando, tra sacro e profano, sberleffi e commozione, “le storie della Bibbia e dei Vangeli, di papi tronfi e di villani sagaci”. Cifra stilistica (riduttivo definirla anticlericale) che resterà immutata sino alle ultime performance dedicate a Giotto, San Francesco, Caravaggio e altri ingegni perlustrati sino ai loro più intimi aneliti.
Con quella vis polemico- dissacrante che sta alla base di tutto un itinerario di sberleffo e denuncia civile, che ha inizio con “Morte accidentale di un anarchico” (sulla ‘misteriosa’ fine dell’anarchico Pinelli) e con “Il Fanfani rapito”, per poi proseguire con “Non si paga non si paga”, “Pum pum! Chi è? La polizia”, “Tutta casa, letto, chiesa”, “Clacson, trombette e pernacchi”. Per un susseguirsi di cachinni e satira al vetriolo (niente inibizioni, autocensure, servo encomio, “altrimenti è tutto uno sfottò vicendevole”) che troverà l’anziano maestro “disponibile a trasformare ogni imprevisto in una nuova farsa”.
Come farà a tempo debito, e traendone immenso gusto, all’indirizzo del suo bersaglio preferito, il Cav. Berlusconi Silvio (oggi disarcionato?), prima ridotto a feroce nanerottolo in “Ubu Bas” (omaggio alla ‘patafisica’ e al celebre personaggio di Jarry), quindi trasformato in “Anomalo bicefalo” come una specie di Frankenstein con il corpo di Silvio e il cervello di Putin. Esemplari di un bestiario umano ancora contundente, di cui Fo sapeva metterci in guardia a suo modo: persuasivo e allarmato, sinchè una risata “non li seppellirà” (quando?).
****
Ps: Dario Fo, per sua stessa ammissione, non amava molto il cinema: o meglio, lo amava da spettatore e meno da interprete. Diversi tempi, ritmi, respiri di interpretazione e costruzione dei personaggi, che per egli non potevano prescindere dai praticabili e dalla ‘serialità’ della presenza scenica, sera per sera, con rigore e soluzione di continuità, dall’inizio alla fine dello spettacolo. Probabilmente Dario mal tollerava saltabeccare da una sequenza all’altra, interrompere il torrenziale fluire della ‘parola’ secondo le esigenze, gli imprevisti, i piani di lavorazione di un film.
Eppure, mentre la Festa del Cinema di Roma, gli dedica una serata d’onore, riproponendo, in copia restaurata, l’ esilarante e surreale “Lo svitato” di Carlo Lizzani del 1956 (ove Dario ha intorno un cast ‘storico’ composto Franca Rame, Giustino Durano, Franco Parenti, Alberto Bonucci, nel ruolo di un dinoccolato, ‘passaguai’ fattorino di di redazione), invitiamo, chi potrà, a riapprezzarlo in almeno due altre sue partecipazioni: “Musica per vecchi animali” di Stefano Benni e Umberto Angelucci del 1989 (vagabondaggio e inseguimenti in una Milano di Ferragosto, deserta e svaporata, con Paolo Rossi, Eros Pagni, Felice Andreasi: mercuriali ‘animali’ di spettacolo) e “Viva Zapatero” di Sabina Guzzanti del 2005 (con Daniele Luttazzi, Michele Santoro, Enzo Biagi, interpreti di se stessi per un pamphlet di satira politico-preventiva che integra salacità di ‘maschere’ ad invettiva satirica).
Da antologia, infine, il suo avvocato Azzeccagarbugli nei televisivi “Promessi sposi” diretto nel 1988 da Salvatore Nocita (sceneggiato da Medioli, Mazzoni, Gennarini), con un cast ‘disparato’ e stratosferico che annoverava Burt Lancaster, Alberto Sordi, Valentina Cortese, Franco Nero, Rosalina Neri, Walter Chiari, Helmut Berger, Giampiero Albertini. F. Murray Abraham, Renzo Montagnani, Fernando Rey. Irripetibile, non più concepibile.