Il mestiere del critico
DUE PAPA’, UN SOLO BEBE’
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“Bridget Jones’s baby” , un film di Sharon Maguire
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Renée Zellweger non è né bella né brutta. Un’attrice texana poco meno che cinquantenne dai lineamenti un po’ grossolani e un fisico non proprio slanciato. È quella che è, una donna che recita in ruoli sgradevoli e che fa finta, per giunta, di divertirsi autoironizzando sui suoi difetti, le sue manchevolezze comportamentali (e talora sessuali). Insomma si tratta di un personaggio non si sa per quali meriti salita alla notorietà per mezza dozzina di film più o meno tollerabili – in genere commedie scriteriate giocate su un abituale carosello di equivoci e poco altro – e nel 2001 al centro di un canovaccio tratto da un best seller, Il diario di Bridget Jones, che le regala finalmente una notorietà diffusa. Il pregio di simile commedia? Diretta dall’esordiente Sharon Maguire – la stessa che firma ora il seguito Bridget Jones’s baby – è stata così definita con longanime valutazioni: una storiella “innocua che poi scivola nelle cadenze trite di una soap opera”.
In effetti, la materia del contendere in quel datato e modesto lavoro si limita a parodiare poco elegantemente le disavventure quotidiane di una impiegata invischiata di volta in volta con un intollerabile capoufficio, un avvocato conformista e sui malintesi, le gaffes, gli equivoci ricorrenti d’un tran tran contingente fatto di smanie inappagate e di impossibili tentativi di riscatto sociale e sentimentale. Da quel 2001 in cui si registrava l’opera prima di Sharon Maguire sono passati tre lustri durante i quali Renée Zellweger si è sobbarcata ruoli ancora desunti dalla vicenda dell’impacciata Bridget Jones, ma l’idea di rifarsi ancora e sempre a quella stessa modesta eroina non ci è sembrata davvero una scelta azzeccata. Ancorché inzeppato di tutti gli espedienti di una comicità risaputa, Bridget Jones’s baby risulta, a conti fatti, una ben circoscritta trovata.
E ciò, proprio per l’apporto discutibile della manierata regia della Maguire, quanto per la prevaricante prevalenza del personaggio centrale, appunto Bridget Jones, qui resa ancora una volta con mediocre mestiere e un eccesso di moine e ammicchi inessenziali dalla pur “riciclata” Renée Zellweger, già fatta segno di malevoli pettegolezzi sui suoi “aggiustamenti” chirurgici e le sue abituali indulgenze verso l’alcol. Ma questa ultima è una storia tutta sua: il problema è che pur “emendata” da simili cadute, la sua misura interpretativa si dimostra una volta di più assai discutibile.
Comunque, in dettaglio, il racconto dipanato tra digressioni umoristiche e interpreti complementari alla Zellweger – da Emma Thompson a Colin Firth, da Sally Phillis a Patrick Dempsey – si srotola monocorde e prolisso disegnando le frammischiate avventure della stessa Bridget, di due tangheri accomunati dalla presunta paternità di un pargolo in arrivo, della madre invadente di Bridget, di tutta una piccola folla (anche di addetti televisivi) collettivamente coinvolti in un caravanserraglio di mosse sbagliate, di disguidi destinati inesorabilmente a risolversi, poi, per il meglio.
A completare il quadro desolante di tale squilibrato film pesano, per di più, l’intrusione fragorosa di musiche dozzinali e altresì l’andirivieni di personaggi giostrati con ridanciana sciatteria. A parte il fatto che l’insistita faccenda della gestazione movimentata dal bambino (con Emma Thompson vanamente prodiga nella parte di una spiritosa ginecologa) e ancor più del baracconesco parto della protagonista contribuiscono a dimensionare l’insieme su un terreno decisamente penoso.
In definitiva, Bridget Jones’s baby si dimostra una stiracchiata favoletta raccontata con sbrigativa disinvoltura, fino al punto di contrabbandare il tutto per chissà quale novità. Il poco apprezabile esito di un film come questo neanche minimante appassionante è da imputare, a nostro personale giudizio, proprio al poco originale estro di Renée Zellweger, un’attrice nel più dei casi bamboleggiante e di qualità espressive davvero esigue.