Il mestiere del critico
A LEZIONE DA KELLY E MINNELLI
“Un americano a Parigi”. Dall’omonimo film di Vincente Minnelli (soggetto e sceneggiatura di Alan Jay Lerner). Regia, coreografia, ambientazione di Sonia Nifosi. Con Davide Nardi, Vittorio Centone, Miriam Mesturino, Vanessa Costabile, Valeria Bertoni, Chiara Sposito, Davide Buffone, Marco Passarello, Antonio Picciolo, Vincenzo Veneruso, Micaela Viscardi, Anabel Gonzalez, Giulia Olivieri. Roma, Teatro dell’Angelo. In tornée estiva
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Per fisiologica reazione alla fine del conflitto mondiale (ma anche per aggirare la ‘caccia alle streghe’ del maccartismo), fu il musical ‘stelle a strisce’ il genere cinematografico più in auge negli anni cinquanta. E se “Cantando sotto la pioggia” di Donen e Kelly ne è l’esempio più divulgato, divertente, sapidamente umoristico (e “Un giorno a New York” il più spettacolare e girato anche in ‘esterni’), “Un americano a Parigi” ne è forse la sintesi compiuta, rinomata, creativamente inventiva “Di fatto- recensiva Fernaldo Di Gimmatteo, come scolpendo su durevole pietra- mai si era visto un affiatamento così creativo fra un regista ispirato come Minnelli, uno straordinario danzatore come Gene Kelly -brillantemente coadiuvato da Leslie Caron- una formidabile squadra tecnica (Cedric Gibbons, Irene, John Alton)” unificate da una perfetta osmosi di musiche, interpreti, balletti, prodigi di artigianato scenografico: elementi fondanti dell’evento teatrale (trasposto in pellicola per abilità di montaggio) sin dalla sua ‘primitiva’ aspirazione. Da cui il trionfo hollywoodiano di “Un americano a Parigi”, cui (nel 1951) furono assegnati, come a pioggia, una sfilza di (meritati) Oscar, dal miglior film alla migliore colonna sonora, dalla migliore scenografia ai miglior costumi.
Collante di tanta mirabilia fu, come si diceva, un maestro della regia intesa quale ‘assoluta direzione e conduzione’ di un prodotto commissionato dalle Major: Vincente Minnelli (italo-americano anch’egli) accreditato, già a quel tempo, da una mezza dozzina di film brillanti e di vistoso successo (tra cui “Ziegfeld follies”, “Il pirata”, “Il padre della sposa”, “Madame Bovary”), dai quali zampillava, con esuberante estro, il talento di un ‘metteur en scene’ che ‘pensava alla grande’. La sua capacità di sintesi ed amalgama espressivi, di cui quel film fu apoteosi ma anche inizio di increscioso declino, riscattato solo in parte dalla squisitezza psicologica e leggerezza di stile con cui, in “Tè e simpatia” (1956), si alludeva e si glissava sul tema (allora impronunciabile) dell’omosessualità maschile (coinvolgente anche Minnelli), e dal favolistico “Brigadoom” (1954), in cui l’indimenticata Chid Charisse affiancava, splendida creatura, la professionale (accattivante) scioltezza del sempre sodale Gene Kelly.
Tornato a recente celebrità, complice il certosino lavoro di restauro operato dai Laboratori di Cinematografia di Bologna, “Un americano a Parigi” (disponibile anche in versione home video) continua ad essere- come scrive Sauro Borelli- “l’esempio pefetto di un canovaccio dove l’enfasi della trasfigurazione fantastica prevarica la festosa mediazione evocativa di una vicenda insieme convenzionale e coloritamente esaltata”. Da suggestioni pittoriche operanti un formidabile mixaggio di elementi figurativi evocanti Toulose-Lautrec, Renoir, Manet, in un tripudio di vorticose evoluzioni danzanti e fulgori del Technicolor “esaltati sino al parossismo cromatico, allo stravolgimento della colonna sonora, come a quel tempo era conosciuta”
Arduo ma non impossibile, quindi, il ‘carico’ (l’inevitabile confronto?) che l’ensemble coreografico diretto da Sonia Nifiosi porta sulle spalle e conduce a felice esito nella ripresa teatrale dell’antico canovaccio: forte del particolare che (con diversa disponibilità di mezzi) l’opera di Minelli venne realizzata, per intero, usufruendo (anche per le scene di apparente ‘plein air’) del dovizioso apparato di studi e teatri di posa, ove ricostruire una Parigi ‘fabulosa’, e ogni suo ambiente o dettaglio cesellato da virtuose mani di scenotecnici.
Restando comunque intatta la voluta, elaborata semplicità del plot narrativo e dell’immediatezza del suo universo burrascoso, bohèmienne, a forte tasso di ottimismo sentimentale. Liddove uno squattrinato pittore americano e una giovane commessa francese s’infiammano d’amore in una ‘ville lumière’ appena risorta dalla guerra mondiale. Nutrendo, però, lui un comprensibile senso di colpa (e riconoscenza) verso la ricca mecenate che lo aveva praticamente ‘adottato’ – e lei qualcosa di simile verso un signore che, purtroppo, risulta essere molto amico della ‘nuova fiamma’. è implicito che la vicenda sia corredata di accomodante lieto fine, essendo ‘ogni cosa’ al servizio della seduzione favolistica\evasiva necessaria ad un pubblico appena sortito dalla sventura nazifascista.
Tra scaramucce in bistrot, tanto parapiglia, qualche ingorgo sentimentale- edulcorati dalle sapienti sinfonie di Gershwin, gli intermezzi coreografici ad esse ispirati e il richiamo costante alle atmosfere impressioniste- è implicito che la vicenda sia corredata di accomodante lieto fine, essendo ‘ogni cosa’ al servizio della seduzione favolistica\evasiva necessaria ad un pubblico appena sortito dalla sventura nazifascista.
Ma anche – dicevamo- dalla scure, dalla ‘caccia alle streghe’ che, nel dopoguerra, interferiva pesantemente sulle scelte di un’industria cinematografica psicoticamente (reazionariamente) “in mano ai comunisti”: da neutralizzare mediante la sovrapproduzione di opere fantasiose che con sfarzo e fantasmagorie da Mago di Oz distogliessero dal ricordo –e dal persistere- di drammi sociali tramandati su altri modelli di geopolitica (arrivati oggi al ‘redde rationem’ di islamismo e migrazioni)
Per tutto il resto, l’ allestimento della Nifosi rende esplicito omaggio (dignitosissimo, non reverenziale) a Kelly e Minnelli dei quali ricorrono, rispettivamente, il ventennale e il trentennale della morte. Mentre sul piano dell’ ‘impaginazione’, dell’iconografia scenografica si fa comprensibile ricorso all’uso di ottime diapositive e complessivi ‘avvolgimenti’ resi impalpabili dalla computer-grafica: come i boschi dalle calde tonalità autunnali proiettati su apposito fondale- e poi tra le quinte laterali che sfoggiano un drappeggio di tonalità azzurre, stagliate sulla nitida neutralità di uno sfondo\panorama congegnato per ben ripartire lo spazio scenico tra le necessarie percezioni di realtà e sogno.
Nel complesso quindi, uno spettacolo di pregevole fattura, dalla durata direi (un po’ troppo) dilatata, ma supportato da validi, poliedrici esecutori, in cui l’arte del teatro si ripartisce (danza, recitativi, sonorità) per un complessivo disegno, variopinto e articolato, che merita la complicità degli spettatori presenti e futuri.