Un angelo caduto dallo spazio
Diario minimo e fazioso della stagione cinematografica 2015-2016
Cate Blanchett e Rooney Mara in “Carol”
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Pur essendo poco inclini ai consuntivi da finale di partita, questa volta abbiamo ritenuto di non poterci sottrarre alla necessità di riepilogare brevemente, anche attraverso uno sbilanciamento emotivo inevitabile quanto sincero, una stagione segnata in modo indelebile dall’uscita di alcuni film di inconsueta originalità e/o perfezione.
Occultiamo innanzitutto, sotto un tappeto metaforico, le melensaggini nate già morte come “Brooklyn”, “Joy” e “Room”, insieme alla dislessia figurativa di “The neon demon”, finto horror moralistico per teenagers dai contorni interiori ancora indefiniti (per onestà tuttavia va segnalata Jena Malone, vista anche in “Gli invisibili” accanto a Richard Gere). Ammettiamo di augurare un identico oblio alle (troppe) amenità indigene, imbarazzanti, volatili “piccole cose di pessimo gusto”, nonché alle portaerei in cartongesso progettate a Hollywood-Babilonia (munite o meno di catapulta a vapore posticcia); possiamo citare, in ordine sparso e a titolo di esempio: “The hateful eight”, “Mad Max: fury road” e “Revenant”, adatti a masse poco senzienti e critici dalla penna priapesca, dotata di corpi cavernosi smisuratamente enfi.
Liberato lo spazio dai ‘freaks’ più o meno raccapriccianti che infestano ogni stagione, possiamo lasciare che epifanie e moments of being si formino nel bianco assoluto, riaffiorando come ninfee di Monet: superfici di riflessi e dettagli che suggeriscono fluidità metamorfica e imprendibilità di ciò che appare.
Per prime (ubi maior) si addensano le linee di “Carol”, magistrale adattamento del romanzo di Patricia Highsmith; film sullo sguardo, sulla sua natura e densità, sul senso che instilla e trae, nello stesso momento, nel e dal mondo e le cose, per mezzo di un ininterrotto processo di trasfigurazione. Lo sguardo di Therese Belivet su Carol Aird, amplificato sovente dall’obiettivo di una macchina fotografica che, raccogliendo e concentrando la luce del soggetto, cattura di Carol l’essenza segreta di divinità prigioniera dagli occhi di lince.
Lo sguardo di Carol dentro Therese, sciame di vibrazioni quantistiche dalla forza ipnotica, in grado di irradiare ogni zona circostante (tavolo di un ristorante, salotto, camera, e qualunque esterno). Va detto, non a margine, che senza l’interpretazione di Cate Blanchett, al limite delle possibilità umane, senza la sottile perversione di Carol Aird, avvertibile sottotraccia di sequenza in sequenza, questo film non esisterebbe, o si presenterebbe molto diverso; l’urto emotivo che produce non sarebbe così intenso e duraturo (pur con la superba regia impressionista di Todd Haynes, i raffinati ricami psicologici di Rooney Mara e Sarah Paulson, i costumi di Sandy Powell e la colonna sonora di Carter Burwell, fra le più conturbanti della storia del cinema).
E’ a Waterloo, piovosa cittadina del Midwest persa ‘fra il nulla e l’addio’, che i sensi di Therese si aprono come nerufari bianchi nell’acqua, e aprendosi si disfano in luce liquida e increspata che aumenta di intensità allargandosi in cerchi concentrici. Questa luce diventa freccia che si eleva in altra luce cilestrina, come appena nata, senza potersi fermare, senza poter allentare la terrificante tensione ed ebbrezza della salita e dell’incontrollato rapimento. Ricade infine sulla terra tremando con violenza, bagnata di rifrazioni e trasfigurata, ancora aggrappata a Carol, ritrovando negli occhi azzurri e nella bocca della donna (e nelle parole che le arrivano in sussurri (“mio angelo, caduto dallo spazio”) la stessa calma accogliente di quella luce metafisica e carnale attraversata per un istante infinito.
Subito dopo la ‘divina’ Blanchett (se i fratelli Lumière fossero un dio pagano bicefalo, senza dubbio l’immensa Cate sarebbe uno dei suoi profeti maggiori), si definiscono i contorni di “Remember”, nuova prova perturbante e labirintica di Atom Egoyan, sottile analista degli inganni mnemonici, delle identità illusorie e frantumate, multiple e sfuggenti. Ciò che Zev Gutman pensa di essere si rivela un’immagine sfocata, inafferrabile, posta dietro una parete di vetro percossa dalla pioggia.
A proposito di ‘profeti’ cinematografici, è impossibile non citare “Freeheld” di Peter Sollett, film non perfetto ma trascinato verso l’alto da una prova monstre di Julianne Moore (“roccia eterea” che “s’incrocia col nostro desiderio d’altitudine”, che “ci sfida in un delirio di abisso e profondità”). Trasformatasi da tempo in un Myctophidae pelagico, si muove a profondità inaccessibili a chiunque altro. Da sempre sperimentatrice coraggiosa, officiante di destini incrociati e vite perdute (persino ritrovate), rabdomante dell’ambiguità e molteplicità, la Moore usa tenere, o portare, sulla Soglia del visibile le anime scisse, ferite, dibattute – a volte deluse insoddisfatte e trepide, oppure rabbiose e intemperanti – dei personaggi che sceglie.
Julianne Moore
In “Freeheld” attraversa con Laurel Hester le stazioni di una via crucis che si fa orazione laica, omaggio di struggente, malinconica grandezza alla vita che non può non contemplare la morte, al tempo della felicità (sempre troppo breve), alla capacità di accudimento reciproco, al mistero delle “cose ultime”. Il mistero di quel finale soffio di una vita amata che raccogliamo nelle mani con addolorata devozione, mentre gli occhi della persona morente si smarriscono nell’eternità che si apre.
Julianne Moore procede sulla traccia del precedente Still Alice, dove portava alla luce in modo esemplare l’ultimo segno di umanità che rimane alle persone colpite da Alzheimer: la capacità di provare e riconoscere in sé il sentimento dell’amore (e love è la parola, pronunciata a stento, che conclude il film), prima che dilaghi il terrore sconfinato di trovarsi, sconosciuti a se stessi, in un’estrema Thule di incubi indistinti.
Proseguendo, restiamo ancora una volta ammaliati dalla densità figurativa di “The danish girl” diretto da Tom Hooper (e interpretato con sensibilità da Eddie Redmayne e, soprattutto, da Alicia Vikander), film che dimostra come costumi e make-up possano trasmettere con forza anche messaggi politici e sociali. Lo ha ben spiegato lo stilista Paco Delgado a Harper’s Bazaar: “la cosa più importante è stata rendere l’idea che il corpo fosse per Einar una prigione. I primi vestiti con cui compare nel film – ancora vestito da uomo – rispecchiano l’ambiente austero e conservatore dell’epoca: linee molto rigide, colletti alti e serrati, tessuti pesanti, grigi, neri e blu molto scuri. Il film si apre con abiti opprimenti. Volevamo mostrare una progressione nella vita di Einar e di come si andava liberando dalle restrizioni del corpo in cui viveva. Quando la coppia si trasferisce a Parigi, Einar può indossare gli abiti da donna che desidera, esprimendo la sua personalità: i colori degli abiti diventano caldi, brillanti e luminosi, mentre i tessuti si fanno leggeri, come seta e chiffon, per permettere la libertà di movimento”.
A ribadire l’essenzialità espressiva di ricostruzioni accurate e funzionali di abiti e ambienti, arriva “Suffragette” di Sarah Gavron. Appassionata e dolente narrazione della lotta per ottenere voto e dignità umana nell’Inghilterra del 1912. Spicca nel bel cast la determinazione affaticata di Helena Bonham Carter, farmacista dispensatrice di cure e medicine alle donne appartenenti alla working class e ai loro bambini. Una storia che ci ricorda come ancora oggi gli uomini, pur essendo per lo più minus habentes spesso brutali, godano del vantaggio di venire considerati, per parafrasare Orwell, “un po’ più uguali” rispetto alle donne, in particolare nei paesi dominati dall’islam (ma non solo). E’ ovvio che sul globo terracqueo esistono, crediamo, parecchie eccezioni.
Per restare ancora un po’ nel solco dell’emarginazione sociale, vale la pena di segnalare “Gli invisibili” di Oren Moverman, appena arrivato nelle sale. Ottima storia priva di retorica sulla vita quotidiana degli homeless; un limbo in cui l’identità si decostruisce a poco a poco fra freddo, fame, inutilità, umilianti farragini burocratiche, dipendenza, noia e nostalgia di sé. Toccante, nell’assoluta asciuttezza, l’interpretazione di Richard Gere.
E ora torniamo a osservare le nuvole in viaggio di “Asphalte” di Samuel Benchetrit, fiaba gentile e surreale che può essere considerata la vera sorpresa della stagione (impreziosita da un cast mirabilmente assemblato: da Valeria Bruni Tedeschi a Gustave Kernvern, da Tassadit Mandi a Michael Pitt, da Isabelle Huppert a Jules Benchetrit).
Perché la vita ha luogo solo se e quando il fenomeno neutro viene ri-generato dall’immaginazione in verità individuale, quindi in narrazione o fabulazione dotata di unicità. Così, il clangore ricorrente prodotto da un rottame percosso da correnti fantasmatiche, diventa, a seconda del personaggio che lo ascolta, il grido di un bambino, una tigre o la voce di un demonio.
Perché non esiste deriva che non possa essere arrestata, riconvertita in creatività nuova. Non c’è solitudine che non possa essere colmata, né senso di perdita che non sia possibile curare.
In questo senso, si rivela emblematica la vicenda interpretata da Isabelle Huppert e Jules Benchetrit: un adolescente sensibile e troppo solo si accosta a un’attrice in declino di popolarità appena trasferitasi nel palazzo. Il gioco di reciproche provocazioni, inscenato dai due mantenendo una perfetta misura fra malinconia e sarcasmo, nasconde, appena sotto la superficie, un addolorato, incandescente interesse reciproco. Lo sguardo che poggiano una notte l’uno sull’altra, sdraiati sul letto di lei, colmo di una partecipazione umana priva di qualsiasi risvolto sessuale, la mano di Jeanne che si tende a cercare i capelli di Charly, è una di quelle immagini destinate a rimanere indelebili nella mente dello spettatore. Così come il monologo di Agrippina, filmato da Charly per la ripresa teatrale di una versione di “Nerone”, antico successo di Jeanne nel ruolo di Poppea. Il ragazzo propone alla sfiduciata attrice di cambiare personaggio e spedire il video alla produzione. La incoraggia, la incalza (“fallo bene, fallo per te”) sino a far rinascere a poco a poco, con una progressione emozionante, la grandezza di un tempo. Contro una parete bianca, gli occhi lievemente arrossati, Isabelle Huppert, splendida e disadorna, scolpisce le parole di Agrippina, il viso appena increspato da mille sentimenti, dalla memoria, dal dolore, dall’amore materno, dalla coscienza delle metamorfosi operate dal tempo. Ed è una performance di quelle che non si dimenticano più.
Chi non ha avuto modo di vedere “Perfect day” di Fernando Leòn de Aranoa, black comedy di rara forza corrosiva, cerchi di rimediare durante l’estate. Le disavventure di un piccolo nucleo di cooperanti civili nella Bosnia del 1995, dove appare disperata persino l’impresa di reperire una corda abbastanza lunga e robusta da estrarre un cadavere dal pozzo di un villaggio, si pone fra “MASH” di Altman e “La congiura degli innocenti” di Hitchcock.
Stessa raccomandazione potremmo fare riguardo a “Una notte con la Regina”, intrattenimento graziosamente effervescente con Emily Watson nel ruolo di Elizabeth Bowen-Lyons (moglie di Giorgio VI) e il giovane Jack Reynor.
Chi invece nelle sere di mezz’estate avvertirà il desiderio di un horror d’autore, vada in cerca del nuovo american gothic di Shyamalan: “The visit”.
Per restare in ambito anglofono, sarebbe delittuoso non ricordare le due interpretazioni di Dame Helen Mirren, connotate dalla consueta eleganza ironica: in “Woman in gold” di Simon Curtis e in “L’ultima parola” di Jay Roach.
La nostalgia acuta del giornalismo d’inchiesta ci induce ad avvicinarci a “Truth” di James Vanderbilt, film solido e nobile, avvincente come un thriller (a differenza del bolso e sopravvalutato “Spotlight”). La storia della produttrice della CBS News Mary Mapes, del conduttore Dan Rather e dei loro collaboratori, mostra come il reportage investigativo del 2004 riguardante il servizio presso la Guardia Nazionale di George W. Bush innescò il meccanismo di un’istruttoria perversa e implacabile tendente alla distruzione delle vite e delle carriere di questi giornalisti. Animati, con sfumature diverse, dallo stesso ardore civile, i protagonisti Cate Blanchett (ancora la Divina…) e Robert Redford (veterano di mille battaglie coraggiose) ci travolgono letteralmente con la potenza dei ritratti che disegnano e con la denuncia del pericolo, allora nascente, rappresentato dall’infotainment, attraverso il quale modalità appartenenti allo spettacolo vengono introdotte nei programmi d’informazione, realizzando dei notiziari accattivanti e sostanzialmente inoffensivi assai cari a ogni forma di potere. Non va dimenticato, fra gli altri, il bravo Topher Grace.
Sempre in ambito civile, “Colonia” di Florian Gallenberger ha il merito di analizzare in modo non banale le manipolazioni psicologiche violente messe in atto nella Colonia Dignidad, lager per dissidenti politici travestito da comunità religiosa, fondato e diretto nel Cile di Pinochet dallo pseudo-predicatore tedesco Paul Schafer.
Del nuovo, crepuscolare film di Pedro Almodòvar “Julieta” ci resterà soprattutto l’intensa drammaticità di Emma Suàrez, poiché la sceneggiatura scarsamente consequenziale e l’autocitazionismo cromatico fine a se sesso, unito alle velleità metacinematografiche (vedi la governante/fattucchiera dai tratti cubisti che, nelle intenzioni del regista, dovrebbe sovrapporsi alla Mrs. Danvers di “Rebecca”), impediscono un giudizio del tutto positivo.
Prendiamo cerimoniosamente congedo terminando il résumé con “Le ricette della Signora Toku” di Naomi Kawase, pregevole quanto ignorato. Un’altra storia di esclusione sociale, stavolta indotta da una malattia considerata quasi un marchio d’infamia: il morbo di Hansen (la terribile Tzaraath del Levitico, legata secondo il talmud alla punizione divina per il peccato).
Eppure la dignità umana può essere conquistata al di là di ogni ostracismo. Con la sapienza e la concentrazione, con la passione tenace; come insegnano sia Primo Levi in “La chiave a stella” che la sfortunata, lieve Signora Toku (Kirin Kiki), capace di trasmettere al malinconico Santaro (Masatoshi Nagase), chiuso nel suo chiosco di dorayaki (dolcetti tradizionali giapponesi) e nella sua esistenza vuota, il segreto di una perfetta marmellata di fagioli azuki con cui farcire i dolci.
La ricetta richiede pazienza, dedizione, abilità acquisita negli anni, e tempo; molte ore di lavoro e cura. Bisogna ascoltare gli elementi della preparazione, rispettarli, rispettarne l’essenza, rispettare il tempo che occorre. Prendersi tutto il tempo che serve.
Rispettare con passione ogni minima cosa in cui si è impegnati, persino la fabbricazione di un singolo fiammifero. Affinché sia il più perfetto dei fiammiferi. L’unico fiammifero esistente.
Solo allora si potrà alzare la testa e vedere sul serio i fiori bianchi dei ciliegi.