Il mestiere del critico
L’APOTEOSI DEL MUSICAL
“Un americano a Parigi” un film di Vincente Minnelli
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Meritoriamente restaurato dai “maghi” della “scuola di Bologna” il musical del 1951 di Vincente Minnelli Un americano a Parigi sta mietendo rinnovato entusiasmo tra cinefili un po’ attempati e nuovi spettatori alla prima proiezione del vetusto capolavoro. Ché tale è da considerare, al di là di ogni catalogazione tematica-stilistica, questo lungometraggio salutato al suo primo apparire da una pioggia di Oscar: miglior film, miglior sceneggiatura, miglior fotografia a colori, miglior scenografia, migliori costumi, migliore colonna sonora ecc. ecc.
A ribadire tanta e tale dovizia di pregi, Fernaldo Di Giammatteo ebbe a scrivere quasi incredulo: “Di fatto mai si era visto un affiatamento così creativo fra un regista ispirato come Vincente Minnelli, uno straordinario danzatore come Gene Kelly, brillantemente coadiuvato da Leslie Caron, uno scrittore garbato come Alan Jay Lerner e una formidabile squadra tecnica (Cedric Gibbons, Irene, John Alton), per non parlare dell’impiego puntuale delle musiche e delle canzoni di George Gershwin”.
Un simile esito, d’altronde, non poteva essere imprevisto, stante il fatto che Minnelli, nei primi anni Cinquanta del Novecento, era già accreditato di una mezza dozzina di film brillanti e di vistoso successo (tra cui Ziegfeld follies, Il pirata, Il padre della sposa) nei quali traspariva evidente l’estro originale, il mestiere già maturo del cineasta di Chicago.
L’impianto spettacolare di Un americano a Parigi può essere ritenuto a ragione un canovaccio dove l’enfasi della fantastica trasfigurazione prevarica ogni più festosa mediazione evocativa di una vicenda insieme convenzionale e coloritamente esaltata. Il risultato di questo incontro felice – mischiato furiosamente alle suggestioni pittoriche di Toulose-Lautrec, Manet e Rousseau – è un tripudio di balletti vorticosi, di invenzioni visive che il fulgore del Technicolor esalta fino al parossismo, allo stravolgimento sonoro.
Prevedibilmente la traccia narrativa risulta qui del tutto risaputa. Jerry Mulligan (Kelly) arriva a Parigi dopo la prima guerra mondiale. Vuole fare il pittore ed è tutto infatuato dei riverberi poetici che ogni scorcio di Parigi gli offre. È la bohème tanto sognata e famelicamente vissuta. Poi l’incontro fatale: una ricca, elegante signora in vena di conquistare sentimentalmente il giovane aspirante artista prodiga le sue attenzioni (e il suo danaro) nell’intento preciso di avere in cambio un grato riscontro amoroso.
Ma, si sa, i conti fatti senza il consenso del proprio oggetto del desiderio vanno quasi sempre in fumo. E così accade anche nel caso della vogliosa signora: il suo protegé presto abbagliato da una radiosa ragazza di nome Lise (Caron) se ne va per i fatti suoi, cioè fa e disfa con amici e altri artisti per impalmare la bendisposta Lise, nel frattempo impelagata in un altro romanzetto sentimentale giusto in vista del matrimonio. Sta di fatto, però, che il tenace Jerry tanto si strugge, parla, sragiona e canta da venire a capo dell’ingarbugliata faccenda. Fino a dissipare difficoltà ed impedimenti vari, e, presumibilmente, a coronare nel modo più ovvio il suo sogno. Il tutto tra danze, balli, canzoni e musiche (appunto quelle inarrivabili di Gershwin) a suggello di una favola sempre e comunque accattivante.
Su un canovaccio canoro-drammatico-musicale analogo, ma molto più raffinato e sapientemente strutturato, Cantando sotto la pioggia (1952) di Stanley Donen, ripercorse le tracce del musical “alla maniera di Minnelli” e l’approdo di simile ricalco fu anche più felice di Un americano a Parigi. Soltanto che, mentre quest’ultimo film fu subissato di Oscar, l’altro fu totalmente ignorato dallo stesso premio. Eppure, Cantando sotto la pioggia è certamente bellissimo. Anche in questo caso vale il lusinghiero giudizio di Fernaldo Di Giammatteo: “È forse il film emblema del musical hollywoodiano degli anni Cinquanta. Ma è anche la celebrazione del mondo del cinema, colto nel momento del passaggio dal muto al sonoro”. Comunque, a conti fatti, sia Un americano a Parigi sia Cantando sotto la pioggia vedono Gene Kelly come il deus ex machina di una apoteosi spettacolare inimitabile, preziosa.