Il mestiere del cinema
MATERNITA’ DOLENTE
|
“Julieta” il nuovo film di Pedro Almodovar
****
Era da dire. Col passare degli anni – ormai veleggia verso i settanta –, Pedro Almodovar stempera sempre più i suoi smodati slanci sia tematici, sia stilistici. Questo suo nuovo Julieta, ricavato con qualche aggiustamento narrativo da tre racconti del premio Nobel canadese Alice Munro, il cineasta della Mancia ha imbastito un lungo andirivieni tra i ricordi tormentosi di una cinquantenne madrilena, appunto Julieta, persa, da un lato, nell’idoleggiamento dei suoi amori giovani e, dall’altro, nel controcanto venato di dolorose esperienze di legami affettivi fallimentari cui ha dovuto sottostare nel corso di avventurosi incontri.
Insomma, le furiose trasgressioni della lontana “movida” come anche i parossistici personaggi di tanti film del passato sono ormai cosa del tutto obsoleta. Oggi, Almodovar sceglie la quieta, dolente raffigurazione del mondo appartato di sentimenti privatissimi quale l’amore per donne e uomini – più queste in effetti che non quelli – destinati ad intersecare di volta in volta le amare delusioni, le ricorrenti offese dell’avversa sorte; e le luttuose conseguenze di vicende sfortunate. È, tutto sommato, un Almodovar sommesso, poco incline alle provocazioni sessuali, alle sarcastiche notazioni moralistiche: e in questo suo circoscritto ambito il cinema, per la prima volta stinge nella lamentazione pietistica o, peggio, nell’astratto, sofisticato mélo. Non che Julieta sia un film fatto male. Anzi, una sceneggiatura sapiente, una figurazione luministica raffinata, un ritmo controllatissimo (fin troppo) imprimono alla melanconica storia un incedere un po’ ralenti ma non mai trascurato. Un film, tutto sommato, con parecchi pregi tecnico-formali, ma sostanzialmente inerte, devitalizzato.
In breve, Julieta figura in campo fin dall’inizio mentre ancora ventenne è colta durante un viaggio in treno, ove per un verso o per l’altro è coinvolta in un casuale incontro con un uomo attempato (incline al suicidio) e con un giovane irsuto, prestante col quale farà presto l’amore. Dopo di che, per lo spostamento intrecciato di diversi flash-back, rivedremo Julieta ormai cinquantenne spostarsi ora in Spagna, ora in Portogallo e da un matrimonio all’altro (frutto anche della figlia Antia), con parenti propri e acquisiti funestati da malattie, morti inesorabili. Il solo acquisto prezioso è la figlia Antia, più tardi fonte di infiniti guai.
L’alternanza tra le peripezie della giovane Julieta e quelle della più attempata si verifica secondo una scansione rituale ove ai momenti sereni succedono opprimenti disgrazie: così che il film risulta una altalenante rincorsa tra le confortanti descrizioni di affetti ritrovati e micidiali contraccolpi drammatici, tanto da proporzionare una raffigurazione della vita della commiserevole Julieta come l’emblema del pur abusato binomio, amore e morte.
L’esito complessivo del nuovo Almodovar si consolida nell’insieme – anche grazie ad un team di brave attrici, e, però, secondate da personaggi maschili di modesto spessore – in una messinscena piuttosto prevedibile, di massima improntata a spunti e motivazioni piattamente disegnati, fino a suscitare anche nel più attento spettatore una qualche parentesi di rassegnata assuefazione.
D’altra parte, lo stesso Almodovar, ben consapevole di questo suo inedito ripiegarsi su questioni, argomenti intrisi di maceranti pensieri e di depressioni devastanti, così, esemplarmente, spiega l’essenza precisa di Julieta: “… ho un po’ tarpato le ali ai miei deliri barocchi, ma questo è un film sul dolore femminile legato alla maternità, una riflessione sulla sofferenza per l’abbandono da parte di persone che abbiamo amato e che spariscono dalle nostre vite come se non ci fosse mai stato nulla”. Certo, questo commento al suo stesso film è tutto lecito, persino ben azzeccato. L’avesse fatto direttamente sullo schermo sarebbe stato indubbiamente ineccepibile. Come si dice proverbialmente “tra il dire e il fare …” con quel che segue. Peccato, davvero.