Il mestiere del critico
OWENS VINCE ANCORA
“Race-Il colore della vittoria”- un film di Stephen Hopkins
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Jesse Owens (1913-1980), l’eccezionale atleta che alle Olimpiadi del 1936, a Berlino, vinse quattro medaglie d’oro in specialità atletiche prestigiose (100 e 200m, salto in lungo, staffetta 4×100) è stato un personaggio esemplare sia per la probità morale della sua esistenza – lui, afroamericano consapevole del proprio ruolo sociale – , sia per la coerenza civilissima del suo comportamento sui campi di gara e nella vita di ogni giorno. Stephen Hopkins, professionista sperimentato di tanto cinema spettacolare, ha avuto gioco facile nel proporzionare per lo schermo un film biografico su tale stessa figura, Race-Il colore della vittoria, ove un mannello cosmopolita di attori di collaudato mestiere, da Jeremy Irons a Jason Sudeikis, da Carice Van Houten a David Kross, si muovono e sono mossi tra vicende mutuate dalla realtà corrusca dei declinanti anni Trenta. Proprio il periodo in cui crebbero e maturarono splendidamente la potenza, la bravura di Jesse Owens, anche al di là delle mortificanti imposizioni razziste subite di volta in volta nel proprio Paese e in Germania.
È, anzi, di qui che prende corpo e senso questo film dai toni e dai riverberi ragionati che vede l’iniziazione alla pratica atletica professionistica del giovane Owens, talento naturale di formidabile attitudine, destinato anche al di là di reiterate, ottuse traversie determinate dal suo essere afroamericano ben conscio della propria condizione discriminata e, peraltro, inarrestabile nella sua ascesa verso mete impervie.
Sono molti i momenti, gli episodi in Race-Il colore della vittoria (ove Race significa tanto razza quanto corsa, gara) in cui il confronto drammatico ove è calata la progressiva emancipazione di Owens dal proprio stato di sudditanza forzata – sono indicativi in tale contesto gli scorci con Irons nei panni dell’ambiguo Avery Brundage che caldeggia, obtorto collo, la causa della partecipazione americana alle Olimpiadi del ’36, come anche le malevole difficoltà messe in opera dai dirigenti statunitensi proprio contro il loro fuoriclasse più dotato – e del radicale contrasto con le manovre abiette messe in atto dai gerarchi nazisti (Goebbels in primis) per disconoscere la prevaricante bravura di quel nero elegante, irresistibile.
Ci sono nell’incalzarsi delle vicende ora personali – l’affettuoso rapporto di Owens con la famiglia solidale e con la dolce moglie e la figlioletta –,ora di generale impatto – la convivenza stentata con gli atleti compatrioti e, ancor più, con gli esponenti tedeschi (salvo l’incontro davvero nobilissimo con Lutz Long, leale e generoso competitore) – fino alla conclusione trionfale in Germania e dovunque, ma contrassegnata, alla distanza, da altre umiliazioni e disconoscimenti miserevoli, come il mai avvenuto invito alla Casa Bianca da parte del democratico Franklin Delano Roosevelt, soltanto parzialmente sanati dall’omaggio postumo, nel 1990, della medaglia di eroe americano. Ciononostante, a detta delle attempate figlie di tanto e tale personaggio, Owens si dimostrò sempre un fulgido esempio di cittadino e di atleta: “Era un uomo semplice che non pensava che avrebbe avuto un posto nella storia, anche se poi è accaduto. Aveva talento, era bravo in quello che faceva, aveva forza, coraggio e passione”. Eppure al suo rientro negli Stati Uniti, salvo consensi di privati cittadini, Owens dovette subire, ininterrottamente, desolanti affronti da una opinione pubblica fuorviata dal razzismo e dall’albagia dei potenti.
Race-Il colore della vittoria ha un impianto drammatico lineare, ove alle caratterizzazioni corrette dei vari interpreti corrisponde omogeneamente precisa una sobrietà figurativa ben calibrata, efficace. Va messo inoltre in rilievo che, per alcuni scorci – specie per la parte ambientata a Berlino – entrano in campo propriamente inserti autentici del celebre documentario Olimpia dell’ancor più celebre (e in odore di nazismo fiammeggiante) Leni Riefenstahl qui evocata anche direttamente nel racconto. Ma i rimandi a tant’altro cinema su eventi sportivi si avvertono anche più vistosamente ripensando al bel film di Hugh Hudson Momenti di gloria (con qualche analogia a proposito del razzismo anglosassone) e coi già “classici” Gioventù, amore e rabbia di Tony Richardson e La corsa di Jericho di Michael Mann. In definiva, l’ostracismo fazioso, intollerante contro Owens, anche se tardivamente, è stato battuto ancora una volta.