La memoria
PER PAOLO POLI…LA CULTURA DELLO SBERLEFFO
Aveva 87 anni, nato a Firenze, precoce talento e laurea in letteratura francese- Poi una carriera sempre in crescendo- Umorismo, riserbo, giocoso calembour di una vita quasi tutta a teatro
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“Dicono che sono bravo, ed è abbastanza vero; che la mia comicità è comunque sovversiva, fatta di doppi sensi, canzoncine maliziose, travestitismi femminili e sopra le righe, ma è una constatazione non una critica; che ho un orecchio e occhi ‘furbi’ ma evito il grossolano, e meno male. Comunque mai stato sulla Luna, ho lavorato sodo e non ne faccio una bandiera. Divertendomi ? Detesto chi si diverte sul lavoro. Il lavoro è una maledizione biblica. Anche il mio. Che bello sarebbe vivere da fannulloni, non per sempre, ma due anni si e uno no. Come certi ragazzi svagati di Robert Walser”. Quelli che la critica più edotta connotava “caratterizzati’ da visione lenticolare, enigmatica, strambo-strabica del comportamento umano e dei rapporti intersoggettivi”
Gusto,cultura, eleganza d’animo e di stile, umorismo ed autoironia disinvolti, sorvolanti, mai imbrattati dal dileggio. Erano alcune delle doti di Paolo Poli che, con medesimo spirito ‘fanciullo’, burlesco, favolistico (senza essere blasfemo) dedicava ai temi della religione, congedandosi (ultima risata?) dal “pianeta in prestito” alla vigilia di Pasqua, in quella settimana di Passione che era stata per lui la forte sofferenza per una breve, conclusiva malattia.
Nato nel 1928 a Firenze, l’angelico ed acuminato “sterminatore” di smancerie e perbenismi era si era laureato, giovanissimo, in letteratura francese con una tesi su Henry Beque. Poi, disinteressato all’insegnamento (cui la famiglia intendeva avviarlo) aveva scavalcato il ‘tentacolare’ recinto del teatro, iniziato la sua gavetta lavorando in radio (a Firenze) e nel teatro vernacolare toscano, a ‘scavalcare montagne’ da primavera ad autunno inoltrato. Almeno sin quando era entrato a far parte, a Genova, della “Borsa di Arlecchino” fondata e diretta dal grande maestro Aldo Trionfo.
Donde approderà a Roma, al Teatro della Cometa, con uno spettacolo sul “Novellino” del 1961, incipit del viaggio attraverso testi letterari di prevalente gusto ‘patriottardo’, risibilmente retorico, enfaticamente fasullo. Affabulatore sardonico, per naturale vocazione, Paolo Poli acciuffa la notorietà, le platee plaudenti, la critica non codina con “Santa Rita da Cascia” nel 1967, che –prevedibilmente- viene ‘crocefissa’ per vilipendio alla religione.
Paolo ne verrà fuori egregiamente e senza traumi, proseguendo (sino all’ ‘altro ieri’) una carriera di irriverenze e celebrità senza fisime, soffermatasi su “La nemica” di Nicodemi, “Mezzacoda” da Gozzano (basilare l’apporto dell’amica Ida Omboni e della sorella Lucia), “Paradosso (per un carnevale della ragione)” da Diderot; e, dagli anni novanta in poi, gli impareggiabili bricolage parodistico\letterari de “Il coturno e la ciabatta”, “L’asino d’oro” (ispirtato ovviamente ad Apuleio), “Viaggi di Gulliver” in omaggio a Swift. In televisione avrà ampio consenso con “Tutto da rifare, pover’uomo” (con l’ imprescindibile complicità di Laura Betti), “I tre moschettieri” di Danza, “Viaggio a Goldonia” di Gregoretti. Giusto per limitarci ai titoli per noi più significativi di una carriera durata sino allo scorso anno con “E lasciatemi divertire”, otto puntate di conversazioni, citazioni, miscellanee di ricordi, aneddoti, paradossi, aforismi registrate per Rai 3 con la collaborazione (preziosa) di quel Pino Strabioli che, almeno quale ‘inventore’ di calembour e stramberie, Poli considerava un suo erede.
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Quanto al resto, Paolo Poli (immaginatelo un Oscar Wilde indubbiamente caustico, ma burlone, frizzante, ‘leggero’) fu dandy raffinato, molto ‘transalpino’, ma in urto coi vezzi damerini, deflagrante protagonista della scena satirica in quell’italietta da Carosello – anni 60- che riuscì a catturare e garbatamente sfottere in una storica edizione di “Canzonissima”, partner di Sandra Mondaini.
Esilarante in scena (ma con capacità di cernita che si appagava solo di Palazzeschi, Campanile, Landolfi e poche altri numi), gentiluomo di una vita che non ebbe riverenze o cavezze. Qualche censura si – come per la Santa Rita a teatro (ma chi non la aveva con Bernabei? Chi non se la impone, supinamente, adesso, per stare a galla?) – che sapeva come scrollarsi di dosso con evanescenza, noncuranza – mille metri più in su del censore- come pulviscolo su un abito di alta sartoria: disegnato, imbastito, cucito ‘a mano’ dal suo ingegno, sberleffo, arte del travestimento (e senza mai perdita dell’Io)
Ed ora? Ricordiamolo e ringraziamolo per il diletto riservatoci di stare con noi e tra noi, divertito e distaccato dai frastuoni della vita come Piccolo Principe dalla ‘rotta’ ben sicura e mai smarrita. Anche quando sembrava attardarsi nei suoi illusionistici paesaggi di strambe creature araldiche e sapido scherno da monello chapliniano. Appartato e felino in quella sua bizzarra vita privata (di dispettoso ritegno), fatta di prove al pomeriggio e anziane ‘dame’, sue amiche (attrici ed artiste ancora di forte appeal), la sera in platea, con le quali si accompagnava felpato cavaliere (più d’una volta, in foyer, fu lui a suggerirci spunti di recensione, per poi sospirare angelico “Ma come non vi annoiate con questo tran tran? Come fate a non odiarvi tra colleghi?” – sapeva)
E infine la tolleranza: per le altrui intolleranze, la ‘normalità’ per le altrui anomalie (mentali), ipocrisie (dai “cuori baciapile”), buoncostume ‘malato’ perché sopravvivente fra grigia sottomissione e annoiato conformismo al ‘comune sentire’: alla normalità in grisaglia che è ‘vestito’ di relazioni artificiose, gerarchiche, da do-ut-des-poi-si-vedrà. E’ vero, caro Paolo, ne siamo saturi. Con qualche “acribia ma senza acrimonia” (rubandoti la battuta)