Il mestiere del critico
LE SALVIFICHE NOTTE DI SCHEHERAZADE
foto di Guido Mencari
“Le mille e una notte”
drammaturgia e regia Maria Grazia Cipriani scene e costumi Graziano Gregori
Con Elsa Bossi, Fabio Pappacena, Giacomo Vezzani Suono Luca Contini, Luci Fabio Giommarelli -Edizione Teatro del Carretto
Al Teatro Vascello di Roma
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Nell’immagine della locandina e delle foto di scena esposte in bacheca è racchiuso il senso atroce dello spettacolo : una mano armata di pistola puntata sulla tempia di una donna bendata che atterrita sussulta un muto grido di paura. La semantica de la pièce, nella sua crudezza, è già annunciata a sipario chiuso sulle struggenti note femminili “Gracias a la vida” della cilena Violeta Parra, che vanno sfumando sul corpo dormiente di un clochard/cantastorie. Nel torpore del risveglio, al suono di spettrali carillon (due inquietanti bamboline poste ognuna all’estremità del proscenio in abito nunziale ma con un teschio al posto della testa), questo cantastorie accende i lumini che delimitano il proscenio, e inizia a raccontare l’orribile vicenda del sultano Shahriyar che, per vendicarsi dell’infedeltà della prima moglie, uccide sistematicamente le spose al termine della prima notte di nozze. La scena è spoglia, surreale e al contempo onirica; sul fondo una bianca struttura-contenitore con dentro i teschi e le scarpe delle donne strappate alla vita dalla ferocia di una belva con le sembianze di un uomo.
“Le mille e una notte” è una ri-scrittura meta-storica che ingloba visioni sanguinarie: inizia sin dall’epoca della mitologia che trae dalla morte alimento, riscattandola dal suo destino di mortalità. Ma in netta opposizione all’epica mitologica sta il racconto arabo delle Mille e una notte, che ha invece come motivazione il non morire. Il testo che la Cipriani imbastisce è costruito sulla strategia di Scheherazade nel narrare al pubblico una serie di storie incastonate una nell’altra, dove Il meccanismo interno all’intreccio narrativo è potenzialmente in grado di proliferare le storie raccontate. L’autrice/ regista fa del racconto teatrale un mezzo ancora drammaturgicamente potente per esorcizzare e scongiurare la morte. Simile a Scheherazade mette insieme un excursus di mitologie e storie antiche, moderne e contemporanee che narrano di donne uccise gratuitamente, quale esempio di quanto accade quotidianamente alla donne in ogni parte del mondo. Sono pagine letterarie, colonne sonore di melodramma, pezzi di cronaca nera, echi di conflitti bellici, dove si parla di donne uccise in quanto donne.
L’autrice propone tutto questo attraverso il proprio operare drammaturgico affinato nel corso di un trentennale laboratorio di teatro di ricerca. Tale laboratorio, basato sull’innovazione di linguaggi declinati in una polifonia di modi espressivi, evolve nella spettacolarità scioccante , onirica e visionaria.
La sua ricerca affronta una pluralità di elementi formali o linguistici scaturiti da una visione contemporanea, enucleata attraverso una commistione di favole nere, melodramma e cronache di tragiche realtà, rivissute in un condiviso lancinante grumo di dolore. Reperti di violenza che possono essere ancora venduti all’asta da professionali e cinici banditori che, in una società dove ogni cosa è vendibile, offrono al miglior offerente le camicie da notte delle vittime macchiate di sangue, simili a moderne sindone.
Il pubblico è totalmente coinvolto dai fatti e misfatti tribali che sul palcoscenico si susseguono, attraverso una straziante polifonia costituita da un’ amalgama di suoni gutturali animaleschi dei personaggi, da rumori inquietanti, spari improvvisi, urla strazianti della donna contorta e violata – una struggente Elsa Bossi, che con la sue variegate interpretazioni, a tratti anche ironiche, contribuisce a mettere a fuoco la psicologia dei vari personaggi femminili.
La drammaturgia di Maria Grazia Cipriani raccoglie, riassume e tramanda le tragedie in una serie di quadri scenici simili a tableaux vivants tutt’altro che statici, intrisi di estrema violenza. Si raccontano storie di donne, tra le quali quella di Arianna figlia di Minosse, che dopo aver aiutato Tèseo ad uscire dal Laberinto, fu da questo abbandonata sull’isola di Nasso; Dafne che implora il padre Penèo di distruggere la sua immagine trasformata in pianta di alloro, così da sfuggire alla concupiscenza di Apollo “ infoiato da necrofilia amorosa”. Seguono in un round infernale: il parto di Pasifae, l’orgasmo di Arianna sull’isola di Nasso consolata dall’amore di Bacco. E qui che la kermesse epica di Teseo e il Minotauro, realizzata con grande maestria e veemenza interpretativa dai due attori, Giacomo Vezzani e Fabio Pappacena, è similmente ispirata alle Minotauromachie di Picasso, dove l’esibita primordiale nudità taurina incarna l’uomo e la bestia.
Anche la complessa trama del poema epico-cavalleresco dell’Orlando furioso è rappresentata come una secolare misoginia di Orlando, che da “ innamorato” diventa pazzo verso la bella Angelica, colpevole di essersi innamorata di Medoro, giovane saraceno di cui lei si è invaghita. La stessa misoginia la ritroviamo in Otello, dove la struttura del melodramma di Verdi crea un flusso musicale continuo, capace di riflettere i diversi momenti dell’azione, passando dal recitativo al declamato e agli assoli registrati di canto tenorile. Come se il registro roboante e un po’ nostalgico possa assolvere o normalizzare il “delitto passionale” perpetrato dall’uomo Otello verso Desdemona.
In questa suggestiva messa in scena, Il Teatro del Carretto realizza un vortice di storie concatenate, simili a scatole cinesi, che non vogliono proporre soluzioni ma momenti di riflessioni: Il rapporto che il linguaggio intrattiene con la morte, emerso come uno dei punti saldi del pensiero contemporaneo.