Il mestiere del critico
GOLDONIANI, A BRIGLIA SCIOLTA
“Servo per due” di Bean, con Pierfrancesco Favino- Palermo, Teatro Biondo
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Nonostante la dislocazione geografica e cronologica comporti di necessità una radicale trasformazione di dialoghi e situazioni, della frenetica e tradizionale commedia goldoniana Il servitore di due padroni rimane ancora molto in questo vorticoso ed esilarante Servo per due di Richard Bean, tradotto e adattato da Pierfrancesco Favino insieme con Paolo Sassanelli, Marit Nissen e Simonetta Solder. Dalla Brighton negli anni ’60 alla Rimini degli anni ‘30 il passo non è brevissimo, ma sa molto di ritorno in famiglia e piace immaginare che persino Goldoni ne sarebbe contento. Cos’è dunque quel molto che rimane?
Anzitutto lo spirito di leggero sollazzo – l’autore, pur covando già da tempo gli elementi che saranno propri della Riforma, vuol far ridere ricorrendo alla grande tradizione della Commedia dell’Arte – quindi i tipi umani che non hanno abbandonato il bozzolo per trasformarsi in personaggi, infine l’apertura verso il mondo femminile e l’importanza dell’amore scardinato dalle necessità sociali. Ma, pagato il doveroso tributo al classico oggetto di rivisitazione, lo spettacolo proposto al Biondo e accolto più che con calore con entusiasmo, appartiene interamente agli attori e ai musicisti che ne fanno un’esperienza nuova e pulsante ad ogni replica, come avviene in ogni stand-up comedy che si rispetti.
Pierfrancesco Favino e Paolo Sassanelli dirigono, apparentemente a briglie sciolte, se stessi, gli straordinari attori del Gruppo Danny Rose e i bizzarri e talentuosi musicisti dell’Orchestra Musica da Ripostiglio (Luca Pirozzi, Luca Giacomelli, Raffaele Toninelli, Emanuele Pellegrini). L’imponente lavoro che sta alle spalle di questa poderosa messa in scena, impreziosita dalle belle e multifunzionali scenografie di Luigi Ferrigno e dall’adeguato disegno di luci di Cesare Accetta, è facilmente intuibile al di là delle stesse dichiarazioni dei registi, così come risulta tangibile lo studio sul singolo gesto e sulla singola battuta, ma la sensazione trasmessa è quella di una spontaneità sfrenata, di un divertimento generale che coinvolge prima ancora del pubblico gli stessi artisti.
Favino, nel ruolo di Pippo ovvero del goldoniano Arlecchino, spadroneggia sulla scena sfoderando una splendida vis comica che quasi stupisce – non ce ne voglia l’attore, lo abbiamo visto molto più spesso in ruoli drammatici – sciorina a raffica acrobazie verbali e si muove sulle orme dell’antenato, divorato da atavica fame e mosso da pulsioni fisiche imbellettate dal sentimento, ma con generosa intelligenza lascia spazio a tutti gli altri bravissimi interpreti regalando a ciascuno un siparietto nel quale dimostrare il proprio talento e attraverso il quale inserire lacerti testuali altrimenti sganciati dalla fabula.
A tal proposito cediamo volentieri alla tentazione di sottolineare le discettazioni culturali e scientifiche sull’elaborazione del lutto e sulla differenza tra i gemelli della svampita Clarice (una brillante Eleonora Russo) e quelle sulla condizione femminile di Zaira (l’ottima Anna Ferzetti) o le tante occasioni in cui Fulminéo (splendidamente caratterizzato da Luciano Scarpa) si abbandona alle pose stentoree e all’eloquio forbito ed incalzante di mussoliniana memoria o alla parodia di certi vezzi recitativi che popolano l’universo attoriale, non ultime le drammatiche tirate shakespeariane.
E di altrettanto pregio appaiono anche le interpretazioni di Bruno Armando, Gianluca Bazzoli, Pierluigi Cicchetti, Marit Nissen, Totò Onnis, Diego Ribon, Fabrizia Sacchi, Paolo Sassanelli, Thomas Trabacchi, tutti perfettamente sintonizzati sulle stesse onde sonore, tutti perfettamente calati nello stesso clima festoso che rende leggere leggere le tre ore dello spettacolo. Inutile dire che l’ambientazione scelta si presta ad un facile e irrinunciabile sberleffo alle mode letterarie (il mito futurista della velocità e del dinamismo) e al clima politico dell’epoca ( le camicie nere che vigilano, senza nulla vedere, sui loschi traffici dei non proprio adamantini protagonisti; il ritratto del Duce appeso in salotto). Su tutto domina, gettato come sale sulla minestra, quel pizzico di indisciplinata follia che sovrappone sapidi anacronismi (storici e musicali) allo specifico contesto e che consente immediati rimandi ad un condiviso patrimonio nazionalpopolare.
Allo stesso patrimonio appartengono le canzoni eseguite in scena, motivetti arcinoti e consacrati dal grande pubblico che vengono coerentemente arrangiati in chiave semiseria da musicisti che non disdegnano le clownerie e che non si limitano a porgere movimentati e allegri stacchi tra i vari quadri scenici ma preziose impunture sul tessuto narrativo. L’unico appunto va fatto ad un certo calo di tensione che si avverte durante il secondo atto, forse perché troppo si è riso e palpitato nella parte precedente e perché l’ovvia risoluzione di tutti gli equivoci provocati dallo scombinato Pippo si presenta ormai senza più sorprese. La nave, dunque, può continuare a viaggiare, quella tutta luci sfavillanti (omaggio al Rex di Federico Fellini) che porterà Pippo e l’amata in Costa Azzurra, e quella di uno spettacolo ormai rodatissimo che non teme più alcuna avversità.