Il mestiere del critico
IL DELITTO DELLE UMANE STERILITA’
foto di Eleonora De Longis
Verso Medea, scritto e diretto da Emma Dante. Palermo, Teatro Biondo
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L’idea che sorregge lo spettacolo Verso Medea, scritto e diretto da Emma Dante e proposto al Teatro Biondo (in questi giorni) è forte e gravida di promesse, perché ruota sugli eterni conflitti tra il maschile e il femminile – come genere ma soprattutto come funzione – sul senso di appartenza/estraneità rispetto ad un luogo che ospita e rigetta contemporaneamente e soprattutto sul concetto di maternità inteso nella sua duplice valenza di parto del corpo e di parto della mente, quest’ultimo l’unico che la natura concede all’uomo, se escludiamo certi risvolti mitici, filosofici o squisitamente lessicali.
Qui il parto diventa ossessione ed esibizione e – tra i piatti ventri maschili e l’esuberante rotondità dell’unico ventre fertile, quello di Medea – si estende la desolante distesa di un paese sterile, per vocazione o per maledizione. Le premesse, dunque, sono ideali per lo svolgimento di una storia che, appunto, ‘verso’ Medea potrebbe andare ma che in Medea fa ultima tappa con uno spreco quasi imperdonabile.
La Dante inserisce un Coro di uomini/donne pettegoli, volgari e smaniosi di gravidanze che nulla aggiunge alla perfetta fabula euripidea e molto toglie all’atmosfera del lavoro pericolosamente in bilico tra la solennità della tragedia e le gratuite scurrilità della farsa nostrana. Il linguaggio è ancora (suscita quasi un attonito stupore tanta ostinazione!) costituito da una mescolanza di italiano e dialetto (siciliano e napoletano) che asseconda il legame viscerale della regista con la sua città e le esigenze espressive di parte della compagnia.
Eppure – colpo di scena – lo spettacolo funziona, retto dalle titaniche spalle di una bella e sorprendente Elena Borgogni, che costruisce una sfaccettata Medea dalle tante sfumature gestuali e vocali, e dalla pregevole ricerca musicale dei fratelli Mancuso che apportano dolenti cantilene, sonorità popolari ed ammalianti ritmi dalle radici africane (di certa scuola del Mali in particolare).
Lo spettacolo raggiunge, inoltre, livelli di autentica intensità laddove la Dante si libera dell’imitazione di se stessa e dei propri abusati stilemi o laddove si attiene al dettato euripideo arricchendolo di una indubbia sapienza registica particolarmente sensibile alle movenze sceniche e agli effetti di luce. Ci riferiamo al calcolato tentativo di seduzione del suocero Creonte (Salvatore D’Onofrio), volto a procrastinare di un giorno l’esilio, in cui le braccia e le gambe della bella barbara sembrano voli di farfalle e sinuose spirali
Ed ancora, alla sequenza del parto, dietro un drappo colorato, in cui volteggiano le affaticate mani di solerti levatrici (uomini ovviamente) o ancora alla bellissima ninnananna (in cui la Borgogni, finalmente sganciata dalla combriccola di comari che ne abbassava all’inizio la statura interpretativa, alterna suoni acuti e gutturali in un densissimo impasto emotivo) che accompagna un infanticidio tanto sofferto quanto necessario.
Il dolore spegne in Giasone (un Carmine Maringola fatalmente ingabbiato nel medesimo cliché recitativo) anche l’odio e il coltello, brandito a turno da entrambi, non verrà usato da nessuno. La tragedia si è già compiuta non necessita di altri delitti. Il delitto più grande sta nella sterilità, nell’impossibilità di generare esseri umani o idee, da ventri femminili ormai sempre meno prolifici o da menti maschili ormai sempre meno fervide e generose.