Il mestiere del critico
RICCI\FORTE CONTRO IL BULLISMO OMOFOBO
Al Teatro Biondo di Palermo con il contrastato “Still life”
*****
“A differenza del mondo animale nel mondo umano l’individuo conta più del genere”: una dichiarazione che è anche il manifesto ideologico di Still life, il discusso lavoro del duo ricci/forte proposto al Biondo. Gli autori giungono per la prima volta a Palermo con una proposta/conferenza che, sebbene come inizialmente dichiarato non voglia essere teatro, in realtà si fa spettacolo nel suo fluire ininterrotto di frammenti testuali, spesso delicati, ricercati e disarmanti sotto il profilo linguistico e lessicale, e nelle sapienti coreografie (i movimenti sono curati da Marco Angelilli) scaturite dalle occasioni narrative. Si parla delle vittime del bullismo omofobo, della sconfitta morale della società in cui qualcuno sceglie il suicidio, della violenza fisica o psicologica che accompagna la scoperta di una condizione diversa rispetto ad un concetto di “normalità” che gli autori ritengono assurdo.
L’omaggio a Istanbul – città protesa tra due continenti, simbolo di identità contrapposte, lussureggiante di chiese e moschee, proiettata su un mare che prima o poi mescolerà le sue acque – e le dichiarazioni d’intenti delle madri (due) partorienti sugli insegnamenti da impartire al figlio che verrà sono i tra i momenti più intensi in cui davvero l’argomentazione (che talvolta inaridisce il percorso) lascia il posto alla ricchezza, alla commistione di valori vecchi e nuovi che possono coesistere se sorretti da un comune sentimento d’amore.
Il lavoro cattura strada facendo con altri spunti accompagnati da musiche dirompenti: ed ecco che su un tavolo illuminato dai neon si impasta, affetta, taglia cibo che metaforicamente è carne umana, ecco che il linciaggio del povero Cristo, nudo e colpito dagli scarponi, diventa danza tribale con la sua scia di sangue da lavare, ecco che i volti soffocati dai cuscini, nell’ipocrisia del non vedere e del non sentire, resuscitano in movimenti leggeri e ariosi come il volo delle piume che ne fuoriescono.
Gli interpreti, dunque, in questa logica diventano docili strumenti nelle mani dei registi, ma di ognuno rimane impresso un gesto o un discorso: Anna Gualdo, Giuseppe Sartori, Fabio Gomiero, Liliana Laera, Francesco Scolletta e Simon Waldvogel, ognuno inserisce il proprio tassello e lascia la propria impronta. Sulla scena ardono lumini accesi, tanti, come i tanti nomi che scorrono sul fondale e che il pubblico può apporre in chiusura di spettacolo su una lavagna bianca a futura memoria mentre scorrono le note de La fine di Tiziano Ferro. Il titolo Still life nel suo duplice ambiguo significato di “natura morta” e “ancora vita” allude quindi alla morte o di vita? All’immobilità o al riscatto?
Ad entrambe non c’è dubbio ed è in questi poli opposti che va a concretizzarsi la sostanza di uno spettacolo che ambisce alla provocazione ma che risulta invece persino garbato, nel senso che non disturba come forse vorrebbe, ma si fa specchio riflettente di malcelati pregiudizi o inaspettate e insospettabili aperture mentali.