Punto di (s)vista
UNO SGUARDO SULL’ETERNITA’
Considerazioni apologetiche a margine di
“Freeheld”
Regia di Peter Sollett con Julianne Moore, Ellen Page produz. USA 2015
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Tutte le grandi storie sono – o diventano – storie di fantasmi, almeno nella cultura anglosassone. Le case assumono la fisionomia di organismi viventi inestricabilmente fusi con quelli di chi, di volta in volta, le abita e dà loro una forma attraverso la propria natura e i propri pensieri. Così le pareti, gli oggetti e le mani che li hanno toccati o accarezzati, il pulviscolo luminoso o il sapore di pioggia penetrati all’interno sfiorando gli infissi bianchi di una finestra, dopo aver aggirato la campana cinese, si fondono in un corpo unico, che persiste nel tempo. Memoria si somma a memoria, all’infinito.
Persino un frammento di vetro verde trovato vicino all’oceano, fra sabbia e radi cespugli, evoca il fantasma d’amore (forse mai così vivido e pieno di senso): i sorrisi spensierati di fine estate profusi da Laurel sulla battigia, quando un golf è ormai indispensabile per affrontare il vento pungente, salmastro, e i riflessi dei capelli si spargono nello sguardo di colei che osserva la scena.
Freeheld indaga anche, con semplicità solo apparente, il mistero dell’incontro, del Caso, della scintilla “affatata”. E l’edificazione quotidiana di un rapporto che nasce dal gesto spontaneo di complicità compiuto durante una partita di pallavolo, seguito da un “grazie” sussurrato, quasi solo mimato con le labbra.
Nasce al di là di questioni di età e sesso, delle differenze di gusti, formazione e ruolo sociale; nel fumo ansioso di molteplici sigarette, sul retro di un locale gay, “guardando l’acqua”.
Nasce dalle iniziali ritrosie di Laurel e dalle piccole, impetuose timidezze di Stacie, disegnate con naturalezza da Ellen Page, lontana da stereotipi abusati.
Però la narrazione giunge a una compiutezza alta, a un’intensità indelebile, straziante, soprattutto grazie alla prova magistrale (l’ennesima) di Julianne Moore.
Da sempre sperimentatrice coraggiosa, officiante di destini incrociati e vite perdute (persino ritrovate), rabdomante dell’ambiguità e molteplicità, la Moore usa tenere, o portare, sulla Soglia del visibile le anime scisse, ferite, dibattute – a volte deluse insoddisfatte e trepide, oppure rabbiose e intemperanti – dei personaggi che sceglie.
Fra gli attori viventi è l’unica a creare un connubio così perfetto fra metafisica e attenzione meticolosa al linguaggio del corpo.
Persino il naturalismo insito nelle manifestazioni della malattia terminale si decanta, si trasfigura dentro lo sguardo spaventato e a un tempo consapevole che dona a Laurel (la “disperazione calma, senza sgomento”, stoica e lieve, di caproniana memoria, di chi per tutta la vita ha svolto un lavoro rischioso e adrenalinico e si trova d’improvviso crocifisso a un’inermità crudele e precoce, costretto ad affrontare le limitazioni penose e gli oltraggi anche esteriori inflitti dal cancro e dalle relative terapie).
Una sfumatura particolarmente originale che J. Moore dà a Laurel è rappresentata dalla preoccupazione costante (potremmo forse definirla materna), fin nei momenti più crudi del suo calvario, nei confronti del futuro e dei sentimenti di Stacie.
Percorriamo con Laurel le stazioni di una via crucis che si fa orazione laica, omaggio di struggente, malinconica grandezza alla vita che non può non contemplare la morte, al tempo della felicità (sempre troppo breve), alla capacità di accudimento reciproco, al mistero delle “cose ultime”. Il mistero di quel finale soffio di una vita amata che raccogliamo nelle mani con addolorata devozione, mentre gli occhi della persona morente si smarriscono nell’eternità che si apre (“Piccola anima smarrita e soave, compagna e ospite del corpo, ora t’appresti a scendere in luoghi incolori, ardui e spogli, ove non avrai più gli svaghi consueti. Un istante ancora, guardiamo insieme le rive familiari, le cose che certamente non vedremo mai più… Cerchiamo d’entrare nella morte a occhi aperti…”).
L’Oscar non è mai stato assegnato allo stesso attore due volte di seguito, tuttavia mai come in quest’occasione risulta auspicabile che la consuetudine venga infranta. Per manifesta superiorità.