Il mestiere del critico
L’UOMO CHE SI ESTINSE
“Ivanov” di Anton Pavlovič Čechov versione italiana Danilo Macrì Regia di Filippo Dini Interpreti Filippo Dini, Sara Bertelà, Nicola Pannelli, Gianluca Gobbi, Orietta Notari, Valeria Angelozzi, Ivan Zerbinati, Ilaria Falini, Fulvio Pepe. Scene Laura Benzi Musica Arturo Annecchin Luci Pasquale Mari Prod.Teatro Stabile di Genova Fondazione, Teatro Due- Di scena a Roma al Teatro Eliseo
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La lunga notte di questa eclissi d’occidente, vissuta sulla pelle (nell’anima) di persone, collettività, specifici gruppi sociali -privi di rete di protezione, di welfare, di clientelari invasature- è nitidamente riprodotta dalle prime espressioni teatrali rintracciabili qui a Roma, o in successive soste nazionali. All’Eliseo, ad esempio, si rappresenta (per la regia dell’ottimo Filippo Dimi) la prima, la più ‘sintomatica’ delle opere di Anton Cechov(scritta nel 1887 a 27 anni, morì a 44), titolata al nome del suo sfinito, confusionario anti-eroe- Ivanov – in cui già si prefigurano tutte le esauste maschere della ‘pena’, della ‘fatuo\assurdità’ del vivere (senza vivere), di cui la letteratura, il teatro, la cultura del novecento sapranno fare essenza e percolato attraverso gli itinerari umani e creativi di Musil, Svevo, Pirandello, Joyce, Benco.
Bizzarro. ma pertinente alla poetica dell’autore, è il progetto di regia, mirante a “raccontare la noia”, nelle sue smidollate, numerose sfaccettature, sino a che essa non precipiti in tragedia. E intrecciando, a tal fine, uno spettacolo di smagliante, composita espressività, ove ad un estroso, ingegnoso pauperismo scenografico (con cambiamenti a vista), su di un tappeto musicale evocante, in sordina, motivetti da bella epoque scorre l’ultimo anno di vita dell’Ivanov, uomo e perdigiorno, ambizioso e inconcludente, velleitario e infingardo. Costretto a fare i conti con la propria inadeguatezza verso il mondo” e l’intervenuta disperazione, sotto forma di abulia, di accidia, verso ogni idea di futuro, di dignitosa ‘sopravvivenza’ al vuoto esistenziale procuratogli da una sfilza di errori, miserie, disavventure sentimentali (le, quali, e per inciso, semineranno vittime innocenti, prima fra trutte la moglie Anna Petrovna, platealmente tradita e poi morta di tisi, con lieve foga melodrammatica).
Chi è dunque il demone contro cui Ivanov lotta invano, sino a ‘debellare’ l’esistenza di due donne che lo amano, oltre a quel po’ che resta del suo avito patrimonio terriero? . Come dicevamo, è tarlo della ‘noia’, dell’incapacità di gestire il quotidiano, senza per questo atteggiarsi a vittima, dandy, genio incompreso; semmai dispiegando un’emotività ed un’energia dirompenti come fuochi fatui. A Cechov, ovviamente, che non giudica mai nulla e nessuno, non interessa la scaturigine (la causa) di simile inerzia o blocco esistenziale, cosparso di buoni propositi e minimalismi contraddittori, auto-lesivi. Uomo superfluo e ben più nocivo del suo progenitore “Oblomov” (romanzo del 1859), paladino dell’inerzia più che del dubbio metodico, Ivanov ‘rappresenta’ se stesso, e la sua ‘mancanza di qualità’, senza dover spiegare a nessuno il donde e il dove del suo quotidiano flagello.
Che, va da sé, in questo avvolgente spettacolo in cui naturalismo e pochade, tragedia e vaudeville convivono armoniosamente, guadagna valenze allegoriche, metaforiche, psicosomatiche (la corpulenza del personaggio) rispetto alla ‘perdita di baricentro’ cui ci espone (con dolore o cupio dissolvi) ogni ‘finale di partita’ -e di epoca- incapace (come accadde nella Russia del tardo zarismo) di intravedere elementi di progettualità, di alternative civili e di ‘trainamento’ umano alle cicliche decadenze che la Storia assegna –in senso circolare, sosteneva Vico- ad ogni scadenza d’epoca.
Da cui ripartire come in un ‘viaggio per Citera’: boscaglia, lungo-fiume o mareggiata odisseica che affaticheranno missione e andatura di chi sopravvive come nei “cuori di tenebra” di Conrad e Coppola. Esploratori di un ‘rinascimento alla fecondità dell’esistere’, da cui alcuni di noi saranno purtroppo estromessi. Non per inettitudine, ma per aver troppo osato, prima o in ritardo. E poi il dubbio: cosa mai ‘osò’ Ivanov ‘per ridursi così’?. A fine spettacolo ne sapremo meno di prima, ma del benevolo mistero rendiamo grazie a questo inatteso incontro, ilare e patibolare, con il medico\drammaturgo: egli stesso svogliato, discontinuo, impareggiabile nella vita, più della sua inerme creatura di cui conviene custodire memoria. Quanti consanguinei ha oggi Ivanov? Vanno bene, fra i tanti, “L’uomo in bilico” di Bellow, Portnoy di Philip Roth, “L’uomo che non c’era” dei Coen…?