Il mestiere del critico
BRESSANE O IL FANTASMA DEL CINEMA
“Miramar” di Julio Bressane (nella foto)-Prod.Brasile-1997
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In “Miramar” (quasi sconosciuto in Italia), Julio Bressane (idem come prima) mette in scena il cinema, il suo cinema e dunque se stesso. Ma non lo fa come lo hanno fatto Fellini o Bergman, proprio perché egli rifiuta una storia compiuta, da sempre, e il cinema con il suo linguaggio esplicitato diventa una dimensione inevitabilmente parallela della sua vita. Bressane sceglie di rivelare i contenuti del segno cinema per spiazzare se stesso e lo spettatore,incapace di cogliere i nessi di una vita senza nessi. Proprio come il mare, sempre presente nell’inquadratura ma mai finalmente capace di dirci qualcosa di definitivo., mutevole com’è per natura. Anche le citazioni filmiche e poetiche presenti, da Eizenstein ad Orson Welles, da Osvaldo De Andrade a Machado De Assis, sembrano concorrere a dare del protagonista cineasta un’immagine indefinita, mai coerente e per questo profondamente umana nei suoi detournement temporali e morali.
Il geniale regista brasiliano viene ancora una volta esaltato dalla musica popolare del suo paese, capace di liberarlo in quell’anarchia dissoluta e cieca che da sempre accompagna le sue messe in scena. Gli interni familiari , che all’improvviso mutano in lampi erotici e ferali, raccontano di un’esperienza visiva reale, precinematografica, con cui Bressane convive forzatamente e gioiosamente, e che si chiude sul set vissuto come prova del nove del suo essere al mondo. Per un visionario come Bressane, mettere in scena un regista, se stesso, seppure in una falsa autobiografia, significa sfidare ogni fotogramma a superarlo nelle sue intenzioni, con la macchina da presa sempre pronta a fuggire per raccontare l’istante, il presente sotto le mentite spoglie di un imprendibile passato. Il cineasta protagonista del film guarda e contempla luoghi e persone mentre lo sguardo di Bressane più che condividerne gli esiti sembra volersene sempre distanziare, immettendo così nello spettatore inquietudini identitarie che mai si scioglieranno. Il film sembra quasi vivere una doppiezza necessaria, con il racconto cinematografico che si sovrappone ad una sorta di “critica cinematografica” scritta in presa diretta dallo stesso autore sullo scorrere delle sue immagini.
Alla fine l’indeterminatezza di Bressane diventa cinema puro con i dialoghi posti volutamente a inutile supporto di ciò che solo la percezione visiva e il suo pensarsi possono raccontare. Dunque, “Miramar” non è un film nel film, o un film sul cinema, ma è, o almeno sembra, una riflessione post-godardiana, molto vicina all’ultimo Robbe-Grillet, sulle possibilità che il cinema offre di “guardare” la realtà su livelli paralleli, che talvolta possono anche incrociarsi, basta soltanto che l’occhio del regista lo voglia. Non è un caso che lo stesso Bressane abbia detto: “L’autore che sa cos’è, non è un autore, è un pazzo. E’ uno che non è arrivato alla questione. Che non è riuscito a liberarsi di se stesso. Tu riesci solo a essere qualche cosa, “autore”, se ti liberi di te stesso, se esci fuori di te”. Ed è anche per questo che, in quella lotta spietata che fin dalla origini il cinema ha ingaggiato con le altre arti per affrancarsene, “Miramar” segna un altro punto importante a favore dell’esistenza della settima arte.