Il mestiere del critico
LA DISPERSIONE DEL PATHOS
Nella “Clitennestra” di Pirrotta, con Anna Bonaiuto, al Teatro Biondo di Palermo
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Senza quegli quegli spari finali e quella riproposta fin troppo scontata di sangue ancora versato sulla stirpe maledetta degli Atridi, la Clitennestra di Vincenzo Pirrotta, in scena al teatro Biondo (che produce lo spettacolo con lo stabile catanese) fino al 17 maggio, avrebbe potuto essere più convincente ed efficace. Ciò nulla toglie, o quasi, alla validità e godibilità dello spettacolo, perché Pirrotta comunque è autore di solida esperienza e regista capace di manovrare le sue storie; e, infatti, regala alla sua interprete, un’Anna Bonaiuto tanto fiammeggiante nell’abito quanto misurata e calibrata nell’intensità e nei toni, un personaggio bellissimo, ma ad esso sovrappone una sovrastruttura, una proiezione nel futuro prossimo, una metafora, vicina a certi racconti di Italo Calvino su città futuribili, che non sempre si fonde in modo omogeneo con la vicenda che potremmo definire primaria, quella appunto del ritorno di Clitennestra.
La regina di Micene, legata dalla necessità del nome al perpetuo ricordo dei suoi misfatti, torna dopo millenni nel luogo dei delitti consumati a dispetto delle leggi morali della famiglia e dello Stato. E torna per spiegare, per vincere sull’abisso che l’ha avvolta nella perpetua etichetta di adultera, assassina e madre snaturata; perché, proprio dal suo essere visceralmente madre, sgorga il desiderio di vendetta nei confronti di Agamennone che le ha ucciso Tantalo, il marito legittimo, e scaraventato il neonato contro le rocce. Inizia proprio così lo spettacolo, con la rievocazione di quella barbara uccisione, con la violenza del predatore che non conosce pietà per i sentimenti materni, tanto da ingannarla ancora fingendo le nozze di Ifigenia (bellissima e dolce anche questa rievocazione compiuta su un trono insanguinato calato dall’alto) per poi sacrificarla agli dei.
Sullo sfondo un telo riduce la profondità del palcoscenico e propone i tenui colori di un tempio diroccato con disegni ormai sbiaditi dal tempo. La città è proprio Micene, ma la donna non può più riconoscerla: è diventata una discarica popolata da angeli dannati con le ali di plastica che svelano pian piano – in canti rap nel dialetto siciliano che restituisce all’autore la possibilità di entrare in scena con le “sue parole di ventre” – una verità mostruosa, una realtà che per Clitennestra è un’ulteriore condanna.
Sono proprio i suoi figli, Oreste ed Elettra, i nuovi tiranni della città, ancora con loro la madre dovrà confrontarsi, con il suo stesso sangue guasto (dettaglio che avrà una funzione nel plot), che ha generato uomini che si proclamano dei. E poi con le Erinni – anch’esse si esprimono in dialetto, anch’esse cantano sulle musiche di Giacomo Cuticchio – divenute cagne latranti e bramose di carni umane, ormai lontanissime dalle loro funzioni, proprio loro, un tempo le uniche a non essere asservite a Zeus, adesso custodi di due esaltati imbonitori.
Sarà facile penetrare in quel mondo plastificato e luccicante, facile bloccare il sacrificio umano che prevede l’uccisione di un altro innocente in fasce, facile rinfacciare la tracotanza ai falsi pontefici di una religione che mantiene formule liturgiche note per piegarle a riti estranei e nefasti. I quadri proposti dal regista autore, su più diversi livelli drammaturgici e scenografici – sottolineati dai netti cambi di luce, di prospettiva e di luoghi, tutti ben caratterizzati, come l’immenso nido-braciere ammantato di rosso che riverbera lo stesso rosso sulle Erinni sanguinarie – nelle intenzioni dovrebbero procedere in climax ascendente, ma si verifica, proprio nell’ultimo quadro, quello della rappresentazione del mondo patinato dei falsi dei, quello della resa dei conti, un’inversione di rotta che disperde il pathos creato in precedenza e che brucia involontariamente in immagini urlate e in parole eccedenti ciò che avrebbe potuto restare agganciato a suggestioni esterne o soltanto suggerite. Il mito oggi è morto, evaporato, disperso?
Basta spezzare l’incantesimo- suggerisce Pirrotta- per tornare ad essere artefici del proprio destino e soprattutto parte integrante di una comunità in cui l’egoismo non sfoci nella prevaricazione e nel delirio di onnipotenza. In scena, validamente in più ruoli, Silvia Ajelli, Giulia Andò, Roberta Caronia, Elisa Lucarelli, Cinzia Maccagnano, Lucia Portale, Yvonne Guglielmino.