Il mestiere del critico
CORPO ESTRANEO
La femminilità incompiuta e il relativo (eccessivo) ‘segno’ del grottesco in“Operetta burlesca” di Emma Dante, al Teatro Biondo di Palermo
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E’ un predestinato alla sofferenza e al dolore Pietro, sin da quando la madre lo cullava definendolo “pupidda di zuccaro”, sin da quando giocava con le bambole, sin da quando mostrava attitudine per le depilazioni in una sala di estetista. Ma il suo destino è segnato, deve aiutare il padre, dall’ottuso senso dell’onore e del dovere, a gestire la pompa di benzina, deve svolgere un mestiere da uomo e smettere di gingillarsi nel chiuso della sua stanza con abiti femminili e scarpe dal tacco vertiginoso, quelle scarpe che, allineate in bella fila, delimitano il palcoscenico e segnano il limite invalicabile della vita reale che non deve sconfinare nel sogno di un’altra vita possibile.
Il femminiello protagonista di Operetta burlesca, spettacolo scritto e diretto da Emma Dante, in scena alla sala Strehler del Teatro Biondo, è un personaggio del popolo, di radici sicule trapiantate nella provincia napoletana (giusto per non scontentare nessuno con i dialetti più che per autentiche esigenze poetiche, qui indicate nella diversità persino linguistica del personaggio rispetto ai genitori), non supportato dalla cultura, spesso consolatoria e appagante nella creazione di nobili archetipi e di rispettabili modelli, né compreso da genitori che non sopportano la tara della vergogna; perché in fondo si può essere ciò che si sente di essere, purchè la verità non trapeli all’esterno, purchè si mantenga la facciata ipocrita della rispettabilità.
L’operetta messa in scena della regista, che si riappropria di stilemi e motivi che le sono cari e congeniali, è burlesca perché avvolge il travaglio interiore in piume e paillettes, perché scioglie la via crucis in un movimento incessante, che poi diventa danza di corpi nudi su cui risuonano i rumori delle mani ad accenderne la carnalità, perché fonde le figure genitoriali in un unico personaggio che rappresenta due facce complementari della stessa medaglia, perché avvolge la vicenda con musiche evocative o ammiccanti e oggetti esagerati. Gli eccessi forse stavolta avrebbero potuto lasciare spazio ad una misura maggiore, ad un accoramento che solo a tratti emerge in alcune parti del testo e in quello sdoppiarsi dolce ed inarrivabile tra l’uomo che si sente donna e lo specchio riflesso della propria femminilità inespressa nella danzatrice. Ma cercare una sfrondatura del grottesco sarebbe come pretendere di snaturare la vena più autentica della Dante.
Carmine Maringola veste con grazia e sfrontatezza il proprio ruolo di emarginato alla ricerca di riscatto nell’amore vero, ovviamente deluso, Francesco Guida sa essere spudorato nell’esibizione del ventre opulento da padre e da maschio e ambiguo in quello della madre che cura ogni male con il cibo e crede di consigliare amorevolmente il figlio indirizzandolo ad una vita normale con qualche concessione segreta al proprio vizio; Viola Carinci porge il sogno della femminilità sbocciata e legittimamente esibita, mentre il danzatore Roberto Galbo è un amante appassionato e sincero nella clandestinità, parco di parole e generoso nei regali, purchè si mantenga saldo il grande imbroglio della famiglia felice. Pian piano spogliati dei loro abiti sontuosi, i pupazzi gonfiabili appesi sullo sfondo si rivelano nudi e osceni, come oscena è la menzogna di una vita negata.