Anticipazioni editoriali
MARTIN E HANNAH
Da un film di Margarethe Von Trotta alla prossima pubblicazione, in Italia, dei “Quaderni neri”
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Per due soli giorni (e questo la dice già lunga sulle pecche del nostro sistema distributivo), il 27 e il 28 gennaio, come evento unico per il Giorno della memoria è uscito sugli schermi italiani Hannah Arendt, il film di Margarethe von Trotta, interpretato da Barbara Sukova, attrice-feticcio della regista tedesca, protagonista di film come Anni di piombo, Rosa Luxemburg, L’africana.
Com’era prevedibile, nel raccontare la vita della filosofa tedesca, Margarethe von Trotta privilegia l’episodio della Arendt (in alto, in una foto giovanile), inviata del “New Yorker” in Israele per il processo a carico di Adolf Eichmann, processo da cui prese spunto La banalità del male, un libro che andrà incontro a numerose controversie per la sconcertante immagine che restituisce di quel dispensatore di morte: non un mostro, ma uno squallido burocrate, sciatto e mediocre. Un uomo banale. Niente di più.
Nel corso del film alcuni flashback riportano agli anni ’20 e ’50 in cui si rievoca la relazione fra Hannah e Martin Heidegger, il suo maestro (quando lo conobbe, Hannah avea diciannove anni; Heidegger ne aveva trentasei, era sposato e aveva due figli). La loro vicenda sentimentale finì per il fatto che Heidegger non intendeva lasciare la moglie e temeva di perdere la cattedra all’Università di Marburg. Si potrebbe parlare di banalità del cuore e di una parentesi rosa con “sfumature di grigio”.
Sebbene non fossero più in contatto da anni, lei subì uno shock e una forte delusione quando scoprì che il suo stimato professore. e primo amore, nel 1933 aveva deciso di aderire al nazismo. Nonostante tutto, nel 1950 la Arendt tornò a essergli amica e il rapporto intellettuale fra i due rimase costante fino alla morte di lei, nel 1975. Heidegger morì un anno dopo.
Soffermiamoci su questi flashback e cerchiamo di interpretarli secondo la teoria psicoanalitica che traccia il profilo dello spettatore in termini di “circolazione del desiderio”. In Initiation à la sémiologie du récit en images (Ligne Française de l’Enseignement. Parigi, 1977) Alain Bergala si chiede: “Che cosa desidera lo spettatore quando va al cinema?” E ancora: “Qual è la posizione dello spettatore all’interno del film stesso?”.
Domande interdipendenti che vedono lo spettatore come uno “spazio” contemporaneamente “produttivo” (perché dà vita a una attività onirica) e “vuoto” (perché ogni spettatore può riempire questo spazio dando libero sfogo alla sua fantasia). Come il Buster Keaton di La palla n. 13, l’operatore di cabina finito nel film che sta proiettando, o come il Bastian della Storia infinita (il ragazzino risucchiato fra le pagine della fiaba che sta leggendo e che è il protagonista del romanzo di Michael Ende), il fantasioso spettatore di Alain Bergala mette in moto una “circolazione del desiderio” che il film di Margarthe von Trotta ha lasciato insoddisfatto. Buster Keaton e Bastian riempirebbero questo “spazio vuoto” cominciando con il ricordare che se c’è un filosofo presente in modo massiccio nella cultura italiana questo è proprio Martin Heidegger: una ventina di suoi testi è pubblicata da Adelphi, mentre i Quaderni neri (i suoi ultimo scritti di cui tanto si parla) sono in arrivo per i tipi di Bompiani.
Tanto interesse e un’attenzione quasi morbosa gli derivano dalla sua fama di filosofo maledetto, compromesso con il nazismo, sponsor naturale del suo antisemitismo endemico, del quale si trova già traccia nel 1916 (allora Heidegger aveva ventisette anni) in un lettera inviata alla fidanzata Elfride: “La giudaizzazione della nostra cultura e delle nostre università è spaventosa e ritengo che la razza tedesca dovrebbe trovare sufficienti energie interiori per riemergere”. Stesse parole usate pochi anni più tardi da Hitler nel Mein Kampf.
Questo tarlo continuerà a divorare Heidegger fino a diventare argomento stesso della sua speculazione filosofica. Per Heidegger l’ebreo è un problema metafisico, l’ebreo è un essere “senza mondo, privo di patria e di essenza”. In altre parole è il nulla. E come tale il suo destino non è l’annientamento (“vernichtung”), bensì l’autoannientamento (“selbstvernichtung”), perché l’ebreo si fa cosciente di questa nullità e non ha altra scelta.
A questo punto lo spettatore stimolato nella “circolazione del desiderio” non potrà fare a meno di confrontarsi con Heidegger e gli ebrei di Donatella Di Cesare appena edito da Bollati-Boringhieri.
Il sottotitolo del libro è I quaderni neri, milleduecento pagine riguardanti gli appunti personali di Heidegger, che partono dal 1931 per arrivare fino al 1969, annotazioni, abbozzi, chiose sulla questione ebraica attraverso i quali matura il discorso complessivo sull’ebraismo. Per il filosofo di Messkirch l’ebreo è il pugno di sabbia che fa inceppare il meccanismo perfetto della storia dell’Essere, è l’elemento di disturbo che, come tale, va spazzato via. Heidegger lo chiama lo “sradicamento dell’Essere”, una sorta di confusione esistenziale che provoca crisi e perdita di identità. E questo per colpa degli ebrei, che amano distinguersi con il loro cosmopolitismo e chiamarsi fuori dalla storia. E infatti la caratteristica che contraddistingue l’ebraismo è l’essere diverso dagli altri.
A differenza del suo maestro Husserl che cercava il sigificato profondo dell’Essere in dimensioni fuori dal tempo, eterne e universali, Heidegger lo ha cercato in dimensioni temporali, contingenti, finite. La filosofia dell’esistenza è, per lui, legata al divenire temporale, è limitata ai suoi anni, è condizionata dalla “caduta nel mondo” che caratterizza l’uomo e rende perciò “banale” l’esistenza. Lo stesso concetto di “banalità” che ritroveremo più tardi in Hannah Arendt.
Per liberare l’esistenza dal cancro della banalità (l’ebraismo) Heidegger ricorre alla metafisica: siccome l’ebreo è un incidente di percorso nella catena di montaggio dell’esistenza bisogna intervenire con la tecnica, ovvero con il trionfo della macchina, e con l’organizzazione. In soldoni, con il lager e la camera a gas.
Nel dopoguerra Heidegger non ha mai parlato del nazismo, anche se in silenzio ha continuato a coltivarlo nei Quaderni neri, testimoni che lo inchiodano all’ostinazione nel cercare le ragioni del nazional-socialismo nella filosofia. E qui lo spettatore che ha avviato la “circolazione del desiderio” potrà cercare di ricostruire i dialoghi del serrato confronto fra il maestro e l’allieva di un tempo cercando le risposte ai Quaderni neri nella Banalità del male. Da una parte un uomo che caparbiamente si intestardisce a trovare un misero filo di ragione che possa sostenere una tesi tanto assurda quanto disumana, dall’altra una donna che ha svelato come fosse scialbo e insulso il volto della malvagità.