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Agata MOTTA- Il ‘sogno americano’ e il suo naufragio (“A steady rain” al Teatro Libero, Palermo)


Teatro       Il mestiere del critico



IL SOGNO AMERICANO E IL SUO NAUFRAGIO

Graziano Piazza e Davide Paganini (foto di Luca Montanucci)

In “A steady rain” di Keith Huff, di scena al Teatro Libero di Palermo


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Se gli Stati Uniti sono quelli di “A steady rain” viene quasi da pensare che il grande

sogno americano sia solo un abbaglio, una finzione per ingenui, una storiella da

raccontare ai bambini. Ma se Keith Huff, acclamato drammaturgo locale, la racconta

così, con la pignola precisione di chi tenta di sviscerare realtà scomode, anche a costo

di risultare indigesto, c’è da riflettere su quanto certe scelte politiche e sociali dello

stato più potente del mondo siano quantomeno discutibili. Razzismo, alcolismo,

crepe esistenziali che diventano voragini, sfruttamento indiscriminato dei più deboli,

marciume sociale, impotenza o connivenza delle forze dell’ordine, tentazioni

altoborghesi da pagare salate, almeno sul piano del compromesso morale, sono

elementi convergenti in un testo durissimo che, nel mostrare uno spaccato americano

di insolente crudezza, non rinuncia alle grandi tematiche dell’amicizia, dell’amore e

del sacrificio, in tutto cercando una logica convincente, una logica salvifica che metta

fine alla caduta vertiginosa dei protagonisti. Il teatro Libero ospita uno spettacolo, già

acclamato a Broadway con l’interpretazione dei divi hollywoodiani Hugh Jackman e

Daniel Craig, che non teme una durata (110 minuti) ormai purtroppo inconsueta e che

si avvale dell’efficace traduzione di Giuditta Martelli che mantiene l’incalzante

logorrea di certa drammaturgia americana e che impone ai due attori – Graziano

Piazza e Davide Paganini- dei ritmi da annegamento verbale in cui le pause non sono

concesse alle parole così come non sono concesse alla vita caotica dei due amici- poliziotti in

servizio negli angoli deviati della città. La tecnica narrativa è sapiente:

alterna la terza alla prima persona, come se si volesse allontanare su un piano di

neutralità gli eventi per poi zoomare rapidamente sull’interiorità dei personaggi,

tratta il tempo della storia ad elastico, frantumando i nuclei forti in più sequenze da

abbandonare e riprendere in un’alternanza emotiva di grande efficacia. La precisa

regia di Alessandro Machìa impone una recitazione all’americana, prova non facile

per attori italiani formati con altre tecniche ed altri respiri, ma Graziano Piazza

trasuda sofferenza autentica nel tratteggiare il suo cinico-tenero personaggio che si

immola dopo aver preso atto della sconfitta umana e professionale e Davide Paganini

offre una sponda efficace con il suo ruolo, apparentemente più domestico e buonista,

presentando una personalità diversissima eppur complementare. Alla fine nessuna

assoluzione soccorre i personaggi, tutti invischiati in uno squallore che è figlio dello

squallore sociale. Possiamo comprendere i loro errori, quel loro bisogno di

travalicare le regole per proteggere i propri valori (la famiglia in questo caso, ma con

un malinteso senso di possesso), quel loro naufragio tra braccia femminili

consolatorie, quel fallocratico senso di onnipotenza derivato dal possesso di

un’arma, ma non possiamo perdonare. Quest’America non piace a noi così come non

piace all’autore che l’ha ritratta in fotogrammi corrosivi che hanno l’unico difetto di

risultare troppi (di numero) e troppo (qualitativamente) affastellati, quasi un’overdose

difficilmente metabolizzabile. Piace invece lo spettacolo giustamente a lungo

applaudito.