Teatro Il mestiere del critico
COSA E’ MAI LA VIRTU’?
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In un allestimento di Vetrano e Randisi (“L’uomo la bestia e la virtù) in cui “la logica implode” e prevale la componente comica- Palermo Teatro Biondo
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E’ lo stesso Pirandello ad offrire una chiave interpretativa del suo teatro del “grottesco”, definendolo un’intima fusione tra serio e ridicolo, il rovesciamento della commozione in corrosiva risata. L’uomo, la bestia e la virtù è uno dei testi in cui il grottesco assurge alla sua forma più compiuta, in cui lo slittamento dei punti di vista e lo scardinamento interno del “dramma serio”, non del tutto apprezzati e compresi durante le prime rappresentazioni, produce effetti mirabili sul piano della critica sociale e del linguaggio codificato.
Enzo Vetrano e Stefano Randisi, in scena al teatro Biondo in qualità di interpreti e registi dello spettacolo, si impossessano della materia narrativa piegandola alle loro intime esigenze rappresentative ed esaltandone soprattutto la componente comica attraverso un certosino lavoro di parossismo gestuale e di timbri vocali. Ciò che in Pirandello era dolente accostamento a maschere animali, nelle attuate intenzioni dei registi si diluisce in un leggero gioco scenico – fatto anche di accenni di danza, musiche calzanti, azioni quasi sospese, guizzanti apparizioni – nel quale mantenere comunque l’impietoso smascheramento della pubblica morale, che spesso si inceppa e cede a private trasgressioni.
Come sempre Pirandello fa implodere la logica delle convenzioni borghesi, propone personaggi interiormente scissi tra sentimenti e obblighi sociali, razionalizza sino allo spasimo per ricondurre i “casi” rappresentati nell’ambito dell’ordine costituito. Qui è il frutto illegittimo dell’amore dei due “virtuosi amanti” che dev’essere riabilitato agli occhi del mondo esterno, rappresentato, nell’indovinata scenografia di Marc’Antonio Brandolini, dal continuo aprirsi e chiudersi delle ante di un enorme armadio/contenitore (già valorizzato nell’iniziale bella scena cantata), che all’occorrenza diventano usci che consentono di cogliere segreti e intimità.
Enzo Vetrano, il trasparente professor Paolino, Ester Cucinotti, la virtuosa moglie e pudica amante, Stefano Randisi, il noioso, pettegolo e poco arguto figlio della donna, Giovanni Moschella, il brusco capitano di Marina che trascura la moglie, Antonio Lo Presti, nel doppio ruolo del dottore e del fratello farmacista che confeziona il dolce della salvezza imbottendolo di afrodisiaci, comprimono i personaggi sino a renderli ridicole marionette condannate all’ipocrisia, invischiate nei loro stessi errori, coinvolte nella riparazione del torto, costrette ad agire contro le intenzioni.
Quasi sempre in scena, Vetrano detta egregiamente i tempi, si agita e si scompone, si contiene e si autoconvince, prima di poter persuadere gli altri, della bontà del suo piano, della logica dei suoi presunti diritti, in ciò ottimamente assecondato dalla Cucinotti, una riottosa, candida, sconcertata vittima sacrificale della commedia tragica del vivere civile. La regia sottolinea saggiamente – quasi isolandole dal contesto con un uso accorto delle efficacissime luci di Maurizio Viani – alcune scene significative, come quella in cui la signora, acconciata a dovere per risvegliare gli impulsi sessuali del marito, subisce i consigli estetici dell’integerrimo amante che le impiastriccia il viso con la stessa fredda determinazione di un chirurgo chinato sul tavolo operatorio del suo paziente.
Assai godibile anche la lunga scena della cena, in cui il sorriso ingessato e accondiscendente degli amanti si scontra con la facile irascibilità del marito e con gli inopportuni capricci del ragazzo. Alla fine la virtù è salva, la normalità ripristinata, garantita quella convivenza civile – assillo mai risolto per l’autore – sempre pronta a caracollare sotto l’agguato della corda pazza. Validamente in scena anche Margherita Smedile, Giuliano Brunazzi e Luca Fiorino, che mantengono brioso e vivace l’agile snodarsi degli eventi.