Teatro Il mestiere del critico
FREUD. UNA GIORNATA PARTICOLARE
“Il visitatore” di Schmitt al Teatro Biondo di Palermo. Regia di Valerio Binasco. Con Haber e Boni
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Tenui marcette militari giungono alla finestra di un appartamento viennese. Fogli sparsi e volumi in disordine stridono con l’architettura lineare dello studio. Qualcuno ha posato mani rapaci su quei libri, ha violato lo spazio privato di un uomo illustre, ha cercato tracce di colpevolezza da aggiungere all’appartenenza ad una “razza maledetta”. La città è occupata dai nazisti e il grande maestro della psicanalisi, Sigmund Freud, nonostante le sollecitazioni della figlia Anna, non sa decidersi a partire, non vuole approfittare del privilegio odioso dettato dalla sua condizione di acclamato studioso, non vuole dismettere i panni della solidarietà nei confronti di chi rimane, non vuole apporre la propria firma su un documento che falsifica grottescamente la realtà.
Siamo ancora soltanto alle prime battute de Il visitatore, dramma di Eric-Emmanuel Schmitt vincitore di tre premi Molière, oggetto già in passato di prestigiosi allestimenti e attualmente in scena al teatro Biondo per l’accurata regia di Valerio Binasco. L’autore belga immette spesso nelle sue opere la propria formazione filosofica, le nutre di parole, riaccende la comunicazione tra i personaggi, usa l’introspezione come strumento conoscitivo, pretende l’uso di un pensiero attivo e costruttivo, quasi una ’eresia’ per tanto teatro contemporaneo votato alla poesia del silenzio e dell’incomunicabilità, come giustamente nota lo stesso regista.
Sarà forse per questa coraggiosa deriva tematica e strutturale che il bellissimo testo di Schmitt affascina e cattura o forse per quello slittamento dei punti di vista e dei ruoli che caratterizza la sua produzione, da Il Vangelo secondo Pilato (simile al meccanismo di certi romanzi di Saramago: Il Vangelo secondo Gesù Cristo e Caino) a La parte dell’Altro che propone un alternativo sviluppo artistico nella vita di un inedito Hitler. Restiamo sempre sul terreno insidioso del dubbio, sul campo minato delle certezze mai definitive, circondati da una palpabile fragilità, dal senso di precaria instabilità frutto della follia del secolo breve attraversato da incessanti catastrofi.
Ecco perché Alessandro Haber piega, con qualche eccesso che schiaccia e appiattisce la struggente intensità del monologo centrale, il suo Freud al senso di decadimento fisico e morale – il cancro alla gola, la vecchiaia, percepita come un’intrusa nel suo corpo, il compromesso con gli odiosi nemici, il velo opaco del ricatto come strumento di difesa, il potere dei soldi nell’acquisto di utili silenzi – ne fa un essere fragile e disilluso, un lottatore spento, un uomo smarrito come un bambino abbandonato a se stesso; ed ecco perché Alessio Boni, con indovinata aderenza, nel ruolo di Dio o chi per lui, somiglia tanto ad un fool shakespeariano, ad un lucido vagabondo, ad uno scanzonato giullare giunto ad insinuare la tentazione della Fede in chi, tanto aspramente, vi ha rinunciato.
Per lo scienziato, l’ateo ha perso ogni illusione, ma con il suo coraggio ha guadagnato la dignità, mentre l’ipotetico Dio, che abita ambiguamente le sue fantasie, assume gli attributi propri della Natura leopardiana: le promesse non mantenute, le speranze tradite, le cecità e l’indifferenza dinnanzi al dolore delle sue creature. Freud accetta, dunque, come pura ipotesi l’identità di quell’intruso, al quale chiede, da buon materialista, la prova della sua esistenza, la concretezza di un miracolo: Dio, naturalmente, non si concede in esibizioni spettacoli e grida la prigionia di una condizione ontologica dalla quale non può evadere, l’atrocità della solitudine e della noia, l’ingratitudine per la concessione del libero arbitrio, la pretesa umana di avere un Dio davanti alla quale inginocchiarsi e non un Dio che si inginocchia davanti all’uomo, un Dio capace solo di Amore.
La superbia è il virus che ha provocato queste nuove pestilenze, l’uomo non si accontenta più di sfidare Dio, ma vuole sostituirsi ad esso, vuol essere Signore e Padrone della natura, della materia, della vita, del corpo, della morale. Non si tratta del solito dialogo tra sordi, il loro è un disperato tentativo di ascolto reciproco, di riconoscimento delle altrui ragioni. Sorretti da un’accondiscendente regia Alessandro Haber (nella foto) e Alessio Boni duellano non solo con le armi della loro differente dialettica ma anche con quelle del diverso linguaggio corporeo: il vecchio e il giovane, la malattia e la salute, il lento e goffo incedere del primo contro l’agile e disinvolto movimento del secondo.
I protagonisti, così diversi eppur così vicini nella loro amarezza esistenziale, si lasciano sedurre dallo scambio dei loro strumenti esplorativi: Dio psicanalizza Freud ricorrendo al rapporto col padre, come consacrato nella coeva letteratura mitteleuropea, da Svevo a Kafka, Freud spinge Dio a confessare le sue paure e le sue angosce, ammesso che Dio possa averne.
Nella notte terribile in cui Anna (Nicoletta Robello Bracciforti, energica e combattiva) viene prelevata da un ufficiale della Gestapo (Francesco Bonomo, che regala una grottesca risata al suo viscido personaggio), nell’agonizzante attesa del suo rilascio, avviene l’incontro tra Fede e Scienza, tra cuore e intelletto, tra terra e cielo, da una parte lo studio disordinato che traccia le coordinate del mondo reale, con la finestra aperta come un orecchio spalancato sul dolore del mondo, dall’altro lo spazio asettico, vuoto e colmabile dell’ipotesi divina. Ad unire mondi così diversi, irrompe l’immortale musica di Mozart, l’unica cosa ancora capace di stupire persino Dio.
Il fitto argomentare, sempre aperto, che da secoli attraversa l’umanità si porge al pubblico con un linguaggio immediato che indugia spesso nel sorriso e nell’autoironia, nella consapevolezza di aprire varchi che ogni spettatore colmerà a piacimento, secondo il proprio personale credo. Al Dio di Schmitt è sufficiente che la vita, con tutto il suo corredo di male e di dolore, da assurda possa trasformarsi in misteriosa.