Il mestiere del critico
MOLIERE A ‘FANTAITALIA’
“Il marito smarrito “(da “George Dandin”) al Teatro Libero di Palermo- scritto e diretto da Filippo Renda
Un uomo abbiente ma di modeste origini sposa una donna bella e di nobili natali ma poco sensibile agli obblighi morali del suo lignaggio: un patto consueto per riequilibrare onorabilità e benessere che non produce però stabilità e reciprocità affettive. Le corna sono in agguato, tutti lo sanno, ma nessuno lo dimostra. Bastano pochi elementi e la forza dirompente della comicità di Molière imbastisce una commedia sulle ipocrisie sociali, sulle convenzioni, sulla furbizia muliebre e sull’impossibilità per il gabbato marito, che ha il torto di non appartenere agli alti ranghi, di far valere le proprie ragioni.
Che Il marito smarrito – liberissimo adattamento della commedia balletto di Molière George Dandin scritto e diretto da Filippo Renda, che ne cura anche una disinvolta traduzione insieme con Matthieu Pastore – sia un divertissement è evidente già nella scelta scenografica di Eleonora Rossi, che ricrea l’ambiente con una casetta da parco giochi, un prato sintetico e una staccionata da fumetto Disney.
E gli stessi interpreti hanno qualcosa di fumettistico sia nella parossistica rappresentazione di tipi umani portati all’estremo del ridicolo sia nella reiterazione di situazioni delle quali il povero protagonista non riesce a disinnescare il perfido meccanismo. La trama esile di questa commedia poco rappresentata del grande autore francese si presta spontaneamente al piglio giocoso che caratterizza il lavoro della compagnia Idiot Savant/Ludwig, che avevamo già apprezzato, sempre al teatro Libero (che coproduce lo spettacolo), in Shitz, primo capitolo della “Trilogia dei Tradimenti”.
Se è vero che residui di quelle pastoie sociali sono ancora rinvenibili in certi ambienti della società contemporanea, attenta alla preservazione dei privilegi legati ai ceti, la contestualizzazione anni ’60, evidente nelle musiche e nei costumi, risponderebbe alla stessa logica da Fantaitalia (così la definisce il regista) che sorregge le scelte artistiche del lavoro, se no non se ne capirebbero le ragioni.
Perché gli anni ’60 e non quelli attuali? Perché non mantenere il legame con l’assolutismo del re Sole? Probabilmente gli anni del molleggiato, nell’immaginario collettivo, sono quelli della spensieratezza postbellica, dei gonnelloni spumeggianti, delle canzonette da canticchiare in bicicletta, dei corpi che si abbandonano alle scomposte movenze danzate di impronta liberatoria. Gli anni, insomma, che oggi suscitano il sorriso, ma proprio questa leggerezza diluisce la carica di satira sociale che costituiva il nerbo drammaturgico del lavoro di Molière.
Per quanto ricco, se non addirittura ridondante, di trovate registiche sempre nuove – degne di lode la parodia dei celeberrimi dialoghi degli innamorati di stampo shakespeariano o lo straniamento dell’amante che, agendo contemporaneamente come attore e come spettatore, mette a nudo i meccanismi della recitazione – e di una recitazione frizzante e abilissima, lo spettacolo non oltrepassa la soglia della spensieratezza e il riso crudele che attraversava la scrittura di Moliere sbiadisce sino a diventare quasi incolore.
Naturalmente non è il rigore filologico ciò che interessa al regista, che esercita con intelligente tirannia il suo ruolo, ma non sembra che emergano altre urgenze se non la rappresentazione fine a se stessa attraverso la pregevole capacità interpretativa di Pier Paolo D’Alessandro, Matthieu Pastore, Laura Serena, Simone Tangolo e Anahì Traversi. Infine non si avverte più Molière, la satira non ruggisce e non si parteggia per nessuno, né per il cornuto né per l’antipatica moglie né per i boriosi suoceri né per l’amante cafone né per i servi compiacenti, ma si constata, senza difficoltà, che tutti hanno lavorato bene.