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Enzo NATTA- Il dolore nell’opera di Verdi (un libro di Mario Del Bello)





Scaffale

IL DOLORE NELL’OPERA DI VERDI

In un accurato, documentato libro di Mario Dal Bello

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Concerti e maratone televisive per il 200° compleanno di Giuseppe Verdi, ma anche eventi memorabili come la lettura dell’epistolario verdiano tenutasi alla Scala di Milano con Maddalena Crippa e Filippo Timi. Una selezione di lettere che aiuta a conoscere ulteriormente il celebre compositore seguendolo sui terreni del lavoro, del teatro, della musica, della coltivazione e dell’amore per la terra.

Le lettere in questione contribuiscono a mettere a fuoco l’uomo Verdi, persona riservata e schiva come poche altre, che aveva avvolto la sua vita privata in un alone di circospezione e di segretezza. Come tanti altri grandi artisti era la sua opera a parlare per lui, a manifestarne i sentimenti più intimi e profondi, sono stati la sua musica e il suo teatro a consentire di seguire quella traccia che ha rivelato un costante tormento e un’inquietudine segnata dal dolore.

E’ infatti proprio a questo aspetto che guarda il bel libro di Mario Dal Bello Verdi – Il teatro del dolore (Solfanelli. Chieti, 2013. Pagg. 135. € 12,00), un testo sul quale le numerose celebrazioni verdiane  dovrebbero gettare più di un occhio per il prezioso apporto che, non solo grazie a un’indagine storico-critica ma soprattutto al sottile scavo psicologico, contribuisce a meglio delinearne la figura.

“Verdi fa parlare di musica anche chi non ne parla mai” ha scritto sul “Corriere della Sera” Enrico Girardi nelle pagine che hanno accompagnato la presentazione all’evento della Scala, lamentando che “si è consumata troppa divulgazione a buonmercato.” Ebbene, non a caso ma annoverandolo fra coloro che “hanno sempre saputo fare una divulgazione godibile ma seria”, Enrico Girardi ha inteso testimoniare la validità del saggio di Mario Dal Bello scrivendone  una presentazione in cui si sottolinea come questo sia il libro “di chi prima di soffermarsi su faccende di stile, forma e linguaggio (necessarie, sia beninteso), è capace di cogliere e rappresentare la profonda conoscenza dell’uomo che attraversa il teatro verdiano”.

Il dolore in Verdi, dunque, il dolore stesso di Verdi. Che si fa più intenso nel rispetto della sua stessa nascita, delle sue origini contadine, legate alla sofferenza connessa alle fatiche della terra e di una fiera dignità che dell’umiltà è la miglior compagna di vita. Non a caso il suo carattere ombroso si manifestava con maggior evidenza non tanto se qualcuno ne denigrava il genio musicale quanto piuttosto se metteva in dubbio le sue competenze di agrario e di zootecnico. La terra rappresentava infatti per lui il simbolo dell’inizio e della fine, il ciclo della vita e della morte. E il compagno di strada di questa parabola era sempre il dolore, che il Verdi contadino non riusciva a scuotersi di dosso, quasi a unire indissolubilmente l’amore per la fertlità della  terra e la disumana fatica che il lavoro comporta. Al punto che Giuseppe Rovani, l’autore di Cento anni e precursore della Scapigliatura, diceva che nella sua musica si sente il ritmo e la cadenza delle vanghe che affondano nelle zolle.

In quest viaggio nell’intimità del teatro verdiano Mario Dal Bello non trascura di porre in evidenza che nell’opera del compositore di Busseto “tutto il pessimismo, l’amarezza, il dolore che v’è racchiuso e viene messo in moto talora in modo scalpitante e ribelle tende ‘fatalmente’ – per usare un vocabolo caro al Maestro – verso una luce, cercata e desiderata come mai.” E questo spiega, come ha scritto D’Annunzio, perché “Verdi ha pianto e amato per tutti”.