L‘Intervista
PAOLINI E BRUNELLO
Ciò che sapeva Verdi-Al Teatro Biondo di Palermo, nel bicentenario della nascita
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Il Teatro Biondo Stabile di Palermo, con la nuova direzione di Roberto Alajmo, inaugura la stagione con una prestigiosa anteprima, Verdi, narrar cantando, spettacolo di Marco Paolini e Mario Brunello in scena fino al cinque dicembre. Proposto in occasione del bicentenario della nascita di Giuseppe Verdi, il lavoro – prodotto da Jolefilm in collaborazione con AMC – Antiruggine – Fondazione Teatro Regio di Torino e diretto dallo stesso Paolini insieme con César Brie, con la collaborazione alla drammaturgia e ai testi di Gerardo Guccini – si presenta come un omaggio al più popolare interprete del melodramma ottocentesco, al musicista che ha contribuito in maniera determinante alla formazione di una coscienza morale e civica nel popolo italiano oppresso dal dominio austriaco.
La musica e il teatro si incontrano, dunque, in queste serate particolari in cui non si propone l’esecuzione di un’opera verdiana, ma si raccontano l’uomo, la sua personalità e il suo lavoro attraverso musica e parole. Paolini, che a Palermo ha fatto solo brevi apparizioni estive, ha raccolto con Mario Brunello la sfida di rappresentare un uomo di teatro che ha lasciato dietro di sè un’enorme presenza rimasta nell’immaginario collettivo, impressa nelle vecchie mille lire come un’icona. Ma i miti sono ingombranti – aggiunge Paolini – e spesso cancellano la sostanza del lavoro di una persona. Noi ne abbiamo imparato il segno fortemente popolare e l’impatto enorme su un paese che si stava formando.
Attraverso storie quali Il racconto del Vajont o Tigri racconto per Ustica, lei è stato investito del ruolo di narratore civile. L‘ artista di oggi non può prescindere dall’impegno e dall’obbligo della memoria?
Sono più pressato dal futuro che dal passato, se devo immaginarlo devo partire da una storia. Non voglio svegliare la memoria ma tentare di imparare da essa qualcosa per il futuro. Non mi sento una vestale nè un custode del passato, ma non sono disperato: dimenticheremo, perderemo per strada tante cose, ma resta il gusto di vedere come certe vicende possono diventare storie e contenere personaggi. Mi rivolgo alla memoria per cercare ipoetiche storie.
Può uno spettacolo su Verdi configurarsi come teatro civile?
L’industria dell’opera di allora era simile a quella del cinema di oggi. Verdi sfida il sistema produttivo, si prende la responsabilità di creare nuovi ruoli, di cambiare la forma, senza mai scrivere manifesti programmatici ma nel concreto, opera dopo opera, cerca di non stare dentro i binari del sistema dell’epoca, cambia le cose intorno a sè per poter fare il suo lavoro, fa il rivoluzionario fino alla vecchiaia. In tutto questo esiste una sfida interessante: esiste un modo diverso di raccontare questo paese o subiamo l’impostazione e l’imposizione dell’industria? L’attualità di Verdi, al di là di ciò che ha compiuto personalmente, sta nella risposta che sembra porgerci: puoi fare molto.
Le sembra ancora possibile, in tempi di individualismo sfrenato, parlare di patriottismo e di valori collettivi?
Purchè lo si faccia con una certa ironia, basta non mettersi a predicare. Chi fa teatro è già avvantaggiato se vuol fare politica perchè conosce le regole della demagogia, ma proprio per questo esse infastidiscono. Una certa quota di narcisismo e di demagogia è sempe presente nel nostro lavoro ma si cerca di tenerla sotto controllo, sempre con il dubbio di aver abusato dell’autorità che deriva dal carisma. L’attore, per definizione, gioca non declama, e io sono dentro la tradizione del mestiere.
L’attuale crisi occupazionale potrebbe sfociare nell’ennesima tragedia annunciata?
Non faccio la Cassandra, quindi sono restio a dare opinioni. Il mondo è pieno di gente che dà pareri non richiesti e io non voglio farne parte. Racconto storie e quando parlo di qualcosa come la crisi nel mondo del lavoro lo faccio perchè sto raccontando una storia che vi entra in relazione. Quello che penso io sui vari argomenti affrontati naturalmente c’entra qualcosa ma fondamentalmente racconto una storia.
In queste settimane è possibile vederla al cinema in Sole a catinelle di Checco Zalone. Com’è nata la collaborazione con il comico pugliese?
Me l’hanno proposta ed ho detto subito di sì, perchè avevo già visto gli altri film e mi ero divertito. Proprio perchè sono un attore, sono sempre curioso, decido d’istinto e cerco di fare cose diversissime tra loro e poi, ogni tanto, sono felice di deludere chi si aspetta solo cose serie da me…non sono un professore!
La parte musicale dello spettacolo è affidata al violoncello del Maestro Mario Brunello che per la prima volta affronta Verdi come operista.
Quali sollecitazioni personali ha ricavato dall’incontro con Verdi?
Ho scoperto un Verdi che trova nel violoncello una voce particolarmente adatta perchè questo strumento è in grado di „cantare“ tutte le voci verdiane: dal soprano al mezzo soprano, al tenore, al baritono, al basso. Ho scoperto, inoltre, un Verdi che gli studi musicali in genere relegano in un angolo in quanto compositore prevalentemente di opera; invece lo si può mettere in parallelo, specie nella fase della maturità in cui squarcia la forma operistica portandovi all’interno straordinarie invenzioni musicali ed espressive al pari di grandi compositori sinfonici quali Beethoven.
Alla musica verdiana e alla sua capacità di penetrare nel tessuto sociale raggiungendo le masse è stata attribuita una forte valenza politica. Questa peculiarità del messaggio artistico di Verdi ha trovato spazio nella vostra realizzazione?
E’ la base dello spettacolo. Esso è nato da una domanda che ci siamo posti io e Marco: come mai questa musica è presente in tutte le generazioni e sembra appartenere al nostro DNA? Non è solo una questione di orecchiabilità delle melodie, ma sono proprio le storie di tutti i giorni che narrano, in cui si trovano la gioia, il dolore, le passioni che appartengono alla gente comune, persino alla puttana o all’uomo deforme. La grandezza di Verdi è stata quella di riuscire a trovare un equilibrio tra vero teatro ed arte musicale fusi perfettamente come nei capolavori Otello e Falstaff.
Sulla locandina dello spettacolo si legge “coro popolare formato dal pubblico”. Come siete arrivati a questa forma di interazione con gli spettatori?
Il pubblico in genere è sempre l’elemento altro di qualsiasi forma di comunicazione e, nel nostro caso, poteva dare la risposta alla domanda che ci eravamo posti sulla diffusione dell’opera verdiana. Negli spettacolo ci sono gli strumenti ma non il coro e il pubblico quindi poteva diventarlo. Basta partire con due parole di un’aria nota e subito ci si mette a cantare. E’ una cosa che abbiamo sperimentato e funziona benissimo. Due ore prima dello spettacolo facciamo un incontro lezione in cui cerchiamo di creare un gruppo che verrà poi dislocato un varie parti della sala e che aiuterà a fornire l’avvio.
Spettacoli come questo possono raggiungere il pubblico giovanile e in qualche modo indirizzarlo verso forme nuove di ascolto?
Io sono molto ottimista. Ho avuto esperienza diretta sul fatto che l’opera è nascosta ma non sconosciuta, bisogna soffiare via la polvere e aprire spazi che sembrano inaccessibili e che invece sono alla portata di tutti. Durante gli incontri pomeridiani la presenza dei giovani è incredibile. Sono segnali da cogliere, da portare come esempio e da divulgare e non è vero che l’opera sia finita o appartenga solo a generazioni passate.