Memoria e oblio
CARLO LIZZANI…CHE FATICA ESSERE UOMINI
A circa un mese dalla morte
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Cosa può restare nella memoria collettiva di Carlo Lizzani?Al di là delle commemorazioni di rito,cosa resta di un uomo che ha speso la sua vita per l’arte e quindi anche per il prossimo? Purtroppo davvero poco, in siffatto mondo. La stessa biografia di Lizzani porta a questa risposta. L’essere stato intellettuale organico del più grande partito occidentale della sinistra,il P.C.I., da tempo defunto,ne connota la memoria vincolandola ad una sconfitta storica e personale. Elementi questi che,al di là delle pressanti e principali ragioni personali, forse sono stati anche,silenziosamente e sommessamente, una componente delle cause alla base dell’estremo gesto compiuto,tanto carico di solitudine e di tristezza al pari di quelli simili di Lucio Magri e Mario Monicelli.La sconfitta,dunque. Eppure Lizzani i giorni di gloria e di speranza li aveva vissuti, come tutta una generazione,nel dopoguerra. Assistente di Rossellini,lo aveva seguito fino in Germania dove le assenze continue dal set del suo maestro gli avevano anche consentito di mettere l’occhio dietro alcune scene del capolavoro massimo “Germania anno zero”.Lo stesso suo esordio alla regia con “Achtung banditi!”, nel 1951, era stato all’insegna dell’immediata rievocazione dell’azione partigiana che aveva posto le basi per la rinascita morale dell’Italia.
Ogni suo film successivo aveva accompagnato per oltre cinquant’anni le varie fasi storiche del nostro paese,dal boom al terrorismo fino alla malapolitica traditrice nel peggiore dei modi di tante forse troppe speranze. Il tutto attraverso l’utilizzo del cinema come strumento di conoscenza collettiva e proprio per questo profondamente personale. Lizzani aveva filtrato la sua attenzione verso la realtà, sempre alla ricerca di quel famoso quid gramsciano nazionale- popolare, usando tutti i generi che il cinema gli metteva a disposizione. Dal drammatico (“Ai margini della metropoli”,’53;“Cronache di poveri amanti”,’54), al comico (“Lo svitato”,’55, con un giovanissimo Dario Fo ad anticipare l’intrepido Albanese di Amelio), dalla commedia (il delicato “Esterina”,’59), allo storico (“Il processo di Verona”,’62, e “Mussolini ultimo atto” del’74),dal cronachistico (“Banditi a Milano”;’68, ”Roma bene”,’71”Torino nera”, ’73), al rievocativo (“L’amante di Gramigna”,’69,“Fontamara”,’80;”Caro Gorbaciov”,’88), fino al western all’italiana virato al politico “Requiescant”,’66 dove peraltro regalò un bel ruolo, oltrechè significativo, all’amico Pasolini.
Ho deliberatamente omesso di citare fra queste opere, comunque solo una piccola parte della sua ricca filmografia cinematografica e televisiva, il suo film a mio parere più bello, forse anche perché il più sentito: ”La vita agra” del ’63, tratto dal romanzo omonimo di Luciano Bianciardi pubblicato l’anno precedente. Un film di cui parlerò a parte perchè è quasi l’anello di congiunzione,la chiusura del cerchio, fra la speranza degli inizi politici e intellettuali di Lizzani e la fine di questi. Il protagonista de “La vita agra” all’inizio della narrazione (non farò differenze fra film e romanzo perchè sarebbe ingiusto per l’uno e per l’altro, tanto si rincorrono fino a migliorarsi a vicenda) vuole compiere un gesto rivoluzionario, liberatorio: mettere una bomba nella sede dirigenziale di una compagnia mineraria milanese responsabile della morte di 43 operai, emblematico gesto luddistico e vendicativo che serva a smuovere le coscienze.
Alla fine, occupato addirittura il ruolo di responsabile pubblicitario della medesima compagnia, egli si troverà inesorabilmente imprigionato nella ragione che vuole che quel gesto non venga fatto. Il film è del ’63 e Lizzani sente già- al pari di molti amici intellettuali registi vicini al PCI quali Pasolini, Bertolucci, Maselli e i F.lli Taviani- come davanti alla modernizzazione accelerata e irrefrenabile, votata all’incontenibile consumismo interclassista del boom economico, l’azione rivoluzionaria, il dissenso progettuale restino oramai ‘votati’ (‘marchiati’) (d)alla sola utopia, e forse neanche a quella. Da allora, Lizzani non ha più fatto un film così incisivo, pieno, naturalmente autobiografico. Chi lo vedrà capirà,con tanta commozione, anche soltanto una delle tante motivazioni,foss’anche la meno importante, che hanno portato Lizzani ad abbandonare un mondo senza più speranze, anticipato in questo dallo stesso Bianciardi, morto alcolizzato nel lontano 1971. Il tempo passa, le ragioni restano, purtroppo.