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Enzo NATTA.- Dopo Venezia, tendenze e fermenti (“Via Castellana Bandera”,”Sacro Gra”)




Dopo Venezia

TENDENZE E FERMENTI

Un campionario dei film di maggiore qualità, da “via Castellana Bandiera” e Sacro Gra”

Che tipo di messaggio hanno inviato i premi assegnati alla Mostra di Venezia? Se i premi hanno un senso la risposta è che le cose vanno radicalmente cambiate e che dal cinema ci si attende ben altro.

Con il Leone d’oro a Sacro Gra di Gianfranco Rosi e la Coppa Volpi per la miglior attrice a Elena Cotta (l’ottantaduenne protagonista di Via Castellana Bandiera di Emma Dante) i giornali non hanno esitato a titolare “Rivoluzione al Lido” e “Bertolucci celebra (convincendo tutti) le scelte di Barbera”. Laddove Bernardo Bertolucci era il presidente della giuria e Alberto Barbera il direttore della Mostra.

Se Sacro Gra (evidente il gioco di parole con Sacro Graal, si riferisce all’anello d’asfalto che cinge Roma in una nuova cinta muraria, ovvero il Grande Raccordo Anulare progettato nel secondo dopoguerra dall’ingegner Eugenio Gra, “omen nomen”) segna la tardiva rivincita del documentario sulla fiction, il premio a Elena Cotta ribadisce l’urgenza e la necessità di tornare ad affidarsi ad attori di consumato mestiere e di provata esperienza anziché a stelle e stelline scarsamente dotate di professionalità. Dopo più di un secolo i fratelli Lumière assaporano dunque il gusto della rivincita su Georges Méliès e la rivalsa della realtà sulla fantasia. Allo stesso modo Gloria Swanson rifiuterebbe sdegnata il ruolo della tardona in Viale del tramonto. Anche se a proporglielo fosse ancora Billy Wilder, oggi il personaggio di una vecchia attrice mitomane sarebbe assolutamente fuori luogo per una donna di cinquant’anni.

I segnali giunti dalla Mostra di Venezia indicano dunque che generi e linguaggi cambiano, che l’immaginario deve cedere il passo al reale e che non ci sono più limiti anagrafici a impedire performance sconsigliate dall’età. D’altra parte la sessantenne Meryl Streep  non l’aveva già dimostrato ballando e cantando sfrenatamente in Mamma mia?

Che si debba scalare marcia lo si evince non tanto dalle motivazioni tecniche affidate ai “palmarès” dei festival, quanto piuttosto dai dati del mercato e dagli elaborati degli analisti. I quali dicono che usciamo da un’estate di insuccessi, non solo in Italia ma in tutto il mondo occidentale, con flop clamorosi come i 65 milioni di euro (contro un costo di produzione di 189 milioni) incassati in tutto il globo da The Lone Ranger con Johnny Depp, i 54 di White House Down con Meggy   Gyllenhaal (contro 113 milioni investiti) e i 23 di RIPD con Jeff Bridges (costo 98 milioni).

E se i conti sono magri per Hollywood (a peggiorare i bilanci delle “majors” si sono aggiunti i cinesi che inventandosi una tassa sul valore aggiunto si sono rifiutati di versare circa 90 milioni di dollari a Warner,  Sony e Fox) figurarsi per il cinema di casa nostra che deve vedersela con rapporto deficit-Pil, chiusura di sale e domanda interna che precipita. Il problema, perciò, non è il cambio di registro o l’alternanza di tendenze con il ritornio alla realtà piuttosto che alla fiction, quanto piuttosto il fatto che sul mercato globale si stanno affacciando nuovi autori, novi modi di produrre, nuovi pubblici, ma soprattutto nuovi parametri e nuovi sistemi di comunicazione. E, con questi, nuovi linguaggi che vedono cambiare il terminale. Prima, infatti, c’era il grande schermo, poi è arrivato il televisore, ora ci sono il computer, il tablet, lo smatphone.

Uno studio della Deloitte Global, società di consulenza internazionale, rivela che noi italiani siamo un popolo di “onnivori digitali”. E se così non fosse, quanti lamenterebbero la mancanza del nostro apporto. A cominciare da  Youtube, che ormai produce in proprio e grazie a milioni di contatti può garantirsi successi planetari tipo Noah (un corto di 17 minuti sulle baruffe amorose di due adolescenti), premiato al Festival di Toronto.

Come reagisce il nostro cinema? Eppur non si muove. Con le solite figurine stereotipate proposte da film come Universitari. Molto più che amici di Federico Moccia, campione ed emblema di commedia sentimentale asfittica e avvizzita, sceneggiatura inesistente, regia latitante, interpreti in cassa integrazione.

Altro che svolta epocale. La morale è quella del Gattopardo: che tutto cambi perchè tutto rimanga come prima.