Il mestiere del critico
ALLE ESTREMITA’ DEL TEATRO ACCESSIBILE
Note su “Still life” di Ricci\Forte Rassegna Il Garofano Verde al Teatro Argentina
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Roma- Sussultoreo, temerario, plausibilmente aggressivo. Anche per chi, come noi, trascorse il suo apprendistato critico fra le stanze del Beat ’72, a lezione fra le crudeli metafore leggendarie(di Giuliano Vasilicò) ), l’onnipresente Camion ( di Carlo Quartucci) e i congestionati dadaismi del Circolo La Fede (di Nanni e Perlini). Supervisionati da un Carmelo Bene, ancora indeciso fra le incontinenze urinarie di “Pinocchio” e cavernosi virtuosismi d’ugola che ebbero la meglio.
Tutti e comunque contro la legge del più forte. Che in genere è anche il più ottuso, spaccone,sentenzioso. Dunque contro ogni tipo di intolleranza omofobica, razziale gabellata per etnica fierezza e maschilistica muscolatura di nervi, di ‘palle’, di cuore. Con “Still life” (che a noi piace liberamente tradurre in ‘condizione umana’) Stefano Ricci e Gianni Forte celebrano, al Teatro di Argentina di Roma, i vent’anni della rassegna Garofano verde (ideata e diretta da Rodolfo Di Giammarco, posta in liquidazione dall’ex giunta Alemanno) mediante uno spettacolo in palese fase di rodaggio (v’è qualche scollamento fra linguaggi e simbologie) , ma da cui già si evince una determinazione,un mosaico di tensioni espressive misturate in un diagramma teatrale che rifugge dall’invettiva e dalla semplificazione commiserevole.
Snodato, slegato, sbalzante tra happening, performance e ‘libro bianco’ (documentato, esternato a voce alta) sulle vittime dell’intolleranza in materia di orientamento sessuale, “Still life” affronta a viso aperto la peste della discriminazione omo\etero (mediante ipocrisia e bullismo), ponendo i suoi attori ( Anna Gualdo, Giuseppe Sartori, Fabio Gomiero, Liliana Laera, Francesco Scolletta) al centro di una ‘genetiana’ cerimonia che è omaggio a Davide: il giovane adolescente romano che (deriso dai coetanei) si è tolto la vita, due mesi fa, impiccandosi con una sciarpa color rosa che qui ha l’ambivalente tonalità del rimorso (per la vittima sacrificale) e della volontà di non volgere (più) l’altra guancia.
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Tema forte e che non lascia spazio all’indifferenza, specie quando all’assemblaggio rovente e fantasioso delle metafore sceniche (teatro della crudeltà al tempo del pop, con sevizie nerborute, fiotti di sangue che sembra vero, testoline a forma di nonna-papera, genere horror di Stephen King, candoli di proscenio a sbarrare l’accesso alla verità dei fatti) si accompagna ai nomi, scritti e trascritti, della lunga stele di chi (per orgoglio e dignità identitaria) ci ha già rimesso la vita e la giovinezza. Si comincia da scritte cubitali alle spalle degli attori, si finisce con piccole sigle impresse su una lavagna dagli stessi spettatori che scelgono di andare sul palco a rendere gesti di testimonianza e d’amore: ciascuno dedicando quel nome o vezzeggiativo a chi meglio crede e che ora non c’è più. Anche se è vivo, ma sbriglia verso nuova conoscenza “da quando m’ero fatto tuo credendo di tenerti vicino\ pensando che bastasse ad entrambi” (e qui la pena d’amore non ha genere, né discernimento) o ci si “nasconde non per vergogna\ma perchè sai che della tua paura non v’è niente che si debba spettacolarizzare”
La parola,il dialogo (accuratamente scritti, secondo un ritmo poetico che rimanda alla generazione ‘on the road’), hanno un peso specifico maggiore e irrefutabile, rispetto alle precedenti esperienze di Ricci e Forte, comunque considerati l’emergente punta d’eccellenza del teatro di ricerca in Italia- proprio in ragione di quello che ascoltano le nostre orecchie e che i gesti, ‘empiamente’ provocatori, rendono ‘necessari ‘ all’economia dello spettacolo. Il cui scopo e ambizione sono ben conficcati nel senso della coralità e del pubblico coinvolgimento. Sino ai momenti più scontati, ma teatralmente efficaci ,come quando si chiede ad alcuni spettatori di baciare in bocca gli attori e palesare le proprie inclinazioni sessuali – “poiché la morte non nasce dalla vergogna ma dall’assenza di rispetto”. O come quel un corpo inerme, preso a calci, calpestato, maltrattato senza ritegno e senza che nessuno reagisca . Tanto ‘siamo a teatro ed è tutto finto’. … tanto, al termine della ‘recita’, si torna all’omologazione (di ruoli, gerarchie, funzioni) che è sigla socio-politica del turpe tempo italiano, ai bordi rosicchiati della democrazia formale.
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“Still life” ideato e diretto da Stefano Ricci e Gianni Forte. Con Anna Gualdo, Giuseppe Sartori, Fabio Gomiero, Liliana Laera, Francesco Scolletta. Roma, Teatro Argentina 25 giugno (in ripresa autunnale)