Il mestiere del critico
PRIMA DEL VIAGGIO SIDERALE
“Desideranza” di Giacomazzi e Di Gangi al Nuovo Montevergini di Palermo
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Resta attaccato sulla pelle, come il prurito di un polline allergizzante, il senso di sgomento e di smarrimento prodotto da “Desideranza”, lavoro atrocemente comico di e con Ugo Giacomazzi e Luigi Di Gangi, per l’ultima volta in scena a Palermo in un affollatissimo Nuovo Montevergini. Si conclude un ciclo vitale per questo spettacolo bello e spietato, finalista al Festival Vertigine 2010 ma già segnalato al Premio Scenario 2007, portandosi dietro un carico di esperienze maturate nell’ambito dei laboratori che gli autori di Teatri Alchemici conducono da diversi anni con i diversamente abili. E’ impossibile pensare che l’acquisizione di una gestualità e di una maniera espressiva così profondamente vere e spontanee siano scaturite senza una frequentazione diretta e costantemente alimentata da scambi e confronti tra gli autori-interpreti e i ragazzi del laboratorio, costituitosi ormai in compagnia fissa ribattezzata “Dadalchemici”. E proprio il prossimo 17 luglio, la Compagnia approderà alle Orestiadi di Gibellina (grazie ad una scelta coraggiosa del direttore artistico Claudio Collovà) con il lavoro “Al Prolèter”, diretto dagli stessi Giacomazzi e Di Gangi, per una consacrazione di grande prestigio.
“Desideranza” è un sogno impossibile di libertà, quella libertà, ontologicamente negata all’uomo come condizione permanente, che diventa allucinato tentativo per chi vive incatenato ai ceppi della diversità. Sia chiaro, le catene non vincolano solo chi si trova in condizione di disagio, fisico o psichico, ma anche, e soprattutto, chi da “sano” deve accettare, affrontare e condividere quella condizione. Pino e Sergio sono due fratelli legati indissolubilmente da un rapporto di reciproca sudditanza e dipendenza: il primo dovrebbe essere la solida roccia alla quale far aggrappare la friabile personalità del secondo; ma, come in tutte le relazioni difficili, basate sulla necessità e non sulla scelta, il rapporto spesso si inverte e subisce scossoni e si cementa sul comune terreno di un linguaggio speciale (vi trovano spazio incursioni dialettali ed espressioni inglesi) e di un fantastico vissuto che appartiene soltanto a loro e dentro il quale il pubblico può spiare con pudore, cercando di decifrarne i codici e quasi vergognandosi quando l’accesso a quei codici si svela nella sua indecente complicità, nel suo insopportabile dolore.
Dentro questa nuova dimensione anche gli eufemismi lessicali sono banditi e si può ridere di una nana chiamata nana, di uno zoppo chiamato zoppo, di un mongoloide chiamo mongoloide, termini congiunti ad attributi non proprio oxfordiani. E da ciò, paradossalmente, scaturisce un rispetto vergine, lontanissimo anni luce dall’irriverenza, lo stesso rispetto riservato ad un erotismo puramente televisivo che si sublima in goduriose fantasie culinarie in cui sfilano fritture su fritture. I due fratelli vivono un isolamento necessario alla preservazione sacrale di una domesticità vincolata alla cure della Madre, piagata nell’anima e nel corpo, invisibile ma prevaricatrice persino sui pensieri inespressi, custode di una monade “malata” che deve essere negata al mondo esterno per poter sopravvivere.
Una tenda nella stanza “sopra sopra”, la soffitta libera dai miasmi di piscio e carne macerata della Madre, protegge dalla vita che scorre fuori e che entra, inconsapevole, attraverso rumori e brandelli di immagini, a popolare la disperata prigionia di fratelli. Nel loro codice affiora, in maniera velata o scopertamente esibita, la presenza di una religione che ipocritamente spaccia per dono e fortuna il continuo annaspare alla ricerca di un’identità possibile, che unge come figli prediletti quelli che sanno soffrire e meritare l’eterna ricompensa. Proprio al compimento di un lungo processo di santificazione puntano i fratelli: concedono un definito e colpevole lavacro all’odiato corpo-feticcio della Madre, digiunano per mondare il tratto intestinale, provano incessantemente un copione che dovrà costituire il loro ultimo atto e l’uscita definitiva dalla scena, finalmente “puri e disposti a salire alle stelle” per dirla dantescamente, o, ripescando nell’incanto dei ricordi d’infanzia, finalmente pronti al viaggio siderale (o desiderale come dice Pino) l’unico attraverso il quale il bambino riesce a metabolizzare il concetto di morte.
Ugo Giacomazzi riesce a commuovere e a far sorridere insieme, con un’interpretazione vibrante che tocca le corde emozionali più profonde; infilato in una diversità puramente scenica che ha il sapore della più tragica realtà, smorza il respiro di chi lo guarda per poi concedere il riso liberatorio. L’ottimo Luigi Di Gangi assorbe e si compenetra nel fratello, gli ha offerto la propria vita e adesso ne pretende la fine come unica ricompensa, la sola libertà concessa in quel continuo rimescolamento fisico, umorale, verbale che è stata la sua esistenza con e per il fratello e la madre; è l’agnello sacrificale che la Chiesa dovrà riconoscere ed elevare alla gloria nel giorno della processione di Sant’Antonio, il quale dovrà aprire le sue braccia per accogliere, ancora una volta avvinghiati e fusi, i due fratelli santi e il loro inumano dolore. Il testo si configura come una farsa tragica sprizzante disperazione pura, le interpretazioni sono eccellenti nel porgere brividi, malesseri, scossoni, sollievi repentini: uno spettacolo che non si lascia dimenticare.