Script & Books

Enzo Natta. L’arte del saper sottrarre (“Miele”, un film di Valeria Golino)



Il mestiere del critico


L’ARTE DEL SAPER SOTTRARRE

Jasmine Trinca in una scena di Miele

 

 

“Miele”, debutto di Valeria Golino nella regia cinematografica

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Miele. Traduzione italiana di honey, il più bel vezzeggiativo amoroso in uso fra gli americani. Ma Irene, trent’anni, non si è scelta questo soprannome per atti d’amore, seppure estremi, ma per agghiaccianti soluzioni finali. Pur se svolte al massimo della professionalità. La sua specializzazione consiste infatti nel somministrare la morte a malati terminali. Il tutto con estremo riguardo, segretezza, complicità. Va in Messico (dove i farmacisti non sono un granché rigorosi) ad acquistare veleno per cani che poi somministra ai suoi pazienti assieme a carezze e dolciumi. E non senza aver insistito fino all’ultimo per farli desistere. Perché Irene (altro nome intrigante, che significa pace e al quale viene spontaneo aggiungere l’aggettivo eterna) si espone a tanto rischio? Possiamo soltanto supporlo: la madre è morta qualche tempo fa, probabilmente ha sofferto e di conseguenza nel comportamento di Irene c’è qualcosa che intende compensare quel che si poteva fare e non si è fatto. Ma i tormenti di Irene non sono finiti e la ragazza cerca di scaricarli con lunghe nuotate in pieno inverno o con relazioni che definire sentimentali sarebbe un eufemismo.

Un giorno, però, succede qualcosa che Irene non aveva previsto. Convocata da un ingegnere ultrasettantenne, vedovo, senza figli, la giovane donna scopre che l’uomo non è affatto alla fine dei suoi giorni, ma al contrario gode ottima salute. Il male di cui soffre è di natura esistenziale: è soltanto annoiato, stanco di vivere, deluso da un grigiore che non gli riserva più alcuna emozione e che si consuma nell’assoluta monotonia. Nell’animo di Irene scatta una molla imprevista, pronta e entrare in funzione alla prima occasione. La ragazza si ribella, cerca di sottrarsi al compito richiesto, di svicolare. Ma l’uomo insiste e la mette spalle al muro con una dialettica stringente che ne esalta la sicurezza e l’arroganza, il cinismo e il tono beffardo. Tutte qualità che sconcertano Irene ponendola di fronte a interrogativi sempre più insistenti. E, come se non bastasse, ecco che sentimenti sopiti da tempo tornano a farsi sentire e a reclamare un proprio spazio, ecco che una figura paterna si ripropone ad pretendere affetti mai riscossi. Tutto è rimesso in discussione nel cuore di Irene. A cominciare  dalle pratiche che svolge e di cui afferra il senso in un aeroporto, quando,  incontrando la parente di una persona in precedenza ”assistita”, coglie al volo una velenosa battuta che le viene rivolta con disprezzo: “Che mestiere di merda che fai!”.

Le certezze di Irene vacillano e il miele si è fatto amaro, addirittura disgustoso. Al punto che la donna si mette alla ricerca di una nuova dimensione che sappia infonderle una visione diversa della vita e delle cose che la contornano.  Come le magiche colonne d’aria ideate da Isidoro il Giovane di cui le aveva parlato l’ingegnere e che secondo la leggenda dovrebbero sostenere la cupola di Santa Sofia a Istanbul.

Opera-prima, in corsa a Cannes nella sezione “Certain regard” e in lizza per la Caméra d’or riservata ai registi esordienti, all’origine di Miele di Valeria Golino c’è il romanzo A nome tuo di Mauro Covacich che affronta in modo del tutto inusuale il tema dell’eutanasia. Non schierato di qua o di là secondo le classiche regole più convenzionali del pro o contro, del bianco o nero, ma con tutti i dubbi che ogni scelta difficile e angosciosa porta con sé. Tante domande e poche incerte risposte, del tutto insoddisfacenti. Non siamo dalle parti di Mare dentro di Alejandro Amenàbar, di Bella addormentata di Marco Bellocchio o di Amour di Michael Haneke, me nel bel mezzo di un guado, con il rischio di essere travolti dalla corrente.

All’inizio Irene è una mediatrice di morte, una specialista della soluzione indolore, ma poi improvvisamente, quando tutte le caselle del gioco sembrano completate, l’imprevisto inceppa il meccanismo. E il meccanisno è un altro tipo di male che affligge l’uomo del nostro tempo, un impasto di solitudine, disamore, demotivazione, perdita di emozioni. Un dolore che avverte la stessa Irene e dal quale si sente minacciata  a sua volta. Un dolore per il quale non ci sono farmaci o terapie, ma che bisogna affrontare a viso aperto, nella piena consapevolezza di una sperimentazione di vita che non disdegna di credere all’impossibile. Come alla leggenda della massa d’aria che sorregge la cupola di Santa Sofia.

Anche se tratto da un romanzo, Miele è un film antiletterario per eccellenza e in questo risiede la prova positiva di Valeria Golino in qualità di autore. A differenza di tanto cinema che deve dire tutto per filo e per segno, didascalico fino all’eccesso, Miele è un esempio di quell’arte del “togliere” che consiste nel sottrarre ma nello stesso tempo di lasciare una traccia capace di suggerire quel che manca. Sospesa fra il detto e non detto, sfumata, appena accennata. Dialoghi ridotti all’osso, inquadrature brevi e angolazioni soggette a variazioni continue. Scelta rischiosa, ma intrigante e che, nonostante qualche vuoto, funziona egregiamente. Anche grazie al vivace montaggio di Gigiò Franchini che evoca il “flusso di coscienza” e alla bravura degli interpreti, ben inseriti in questo offuscato effetto di penombra narrativa. Jasmine Trinca, calata a dovere nel disagio di vivere espresso dal suo personaggio, e  uno splendido Carlo Cecchi, scostante, beffardo, ironico. Dolente ritratto di autentica e sofferta umanità.