Botteghini a picco
MALA TEMPORA
Il Cinema affonda nei responsi del 2012
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Inizio anni ’60. Era da poco uscito Il sorpasso e la “Rivista del cinematografo” mi mandò a intervistare Dino Risi. Argomento: tv e motorizzazione avevano cominciato a mietere vittime nelle sale cinematografiche e la parola crisi era ormai sulla bocca di tutti Flemmatico, imperturbabile e con quella punta di beffardo cinismo che riversava nel genere da lui prediletto, Dino Risi non fece una piega, non si scomnpose ed esordì con questa parole: “Sento parlare di crisi da quando ho mosso i primi passi in questo mestiere.” E siccome era un medico aggiunse subito dopo: “E’ una crisi cronica.” Oggi direbbe che è endemica se potesse dare un’occhiata agli ultimi titoli di giornale: “Allarme cinema”, “Botteghini a picco”, “Il cinema affonda”.
Nell’ultimo mese qualche timido segnale di ripresa c’è stato (un 16% in più di spettatori), ma il 2012 – sul cui andamento sono appena stati diffusi i dati – è stato un anno disastroso: meno 10% di biglietti venduti e incassi giù dell’8%. E’ vero che i film prodotti sono aumentati in confronto al 2011 (166 rispetto a 155) e così gli investimenti produttivi (493 milioni contro i 423 dell’anno precedente), ma alla resa dei conti i bilanci hanno segnato un profondo rosso: la quota-mercato, ovvero l’incasso dei film italiani sul territorio nazionale, è precipitata dal 35% al 25% (la differenza è andata a impinguare i proventi del cinema americano) con una forte perdita di incassi (meno 35%) e di spettatori (meno 36%).
A infierire su questa crisi, e in particolar modo sull’esercizio, ha contribuito il fatto che con la fine del 2013 si chiuderà l’era della pellicola e le proiezioni in sala si affideranno esclusivamente al sistema digitale. Lo standard imposto dalle “majors” americane non consente altri tipi di utilizzazione e siccome il “made in Hollywood” domina il mercato globale bisognerà adattarsi a quello. O bere o affogare! Soltanto la Cina, per il momento, si salverà. Grazie all’effetto-Olimpiadi nel Celeste Impero si aprono 5 mila sale all’anno e a dettare legge, in forza di questa rete capillare, è ancora il potere centrale. Checché se ne dica, il numero continua a essere potenza.
Tutt’altra storia in casa nostra. In Italia gli schermi sono 3900, dei quali 1800 non sono ancora stati convertiti al digitale. Visto che di questi un migliaio sono in fase di trasformazione, che ne sarà degli altri 800? Il problema ha fatto sì che al Ministero dei Beni Culturali sia stato aperto un “tavolo di crisi” per studiare una soluzione in grado di salvare il patrimonio culturale rappresentato dall’esercizio cinematografico.
Il problema, ovviamente, investe due volte il cinema d’essai, le monosale dei centri urbani impegnate in una programmazione di qualità. Doppiamente penalizzate da un pubblico ridotto e da un prezzo del biglietto di minor costo. Prendiamo ad esempio quella fetta di esercizio rappresentata dalle “sale della comunità”, come oggi sono definite le ex sale parrocchiali che attualmente sono circa 650 e tutte trasformate in sale d’essai aderenti alla Fice. Di queste un centinaio sono già state convertite al nuovo sistema, mentre 250-270 stanno per effettuare il passaggio. E le altre? La cifra necessaria per la trasformazione non è di poco conto: dai 40 ai 60 mila euro come minimo. Anche di questo si parlerà al “tavolo di crisi”, dove qualcuno dovrebbe far presente quel che succede nella stanza accanto, ovvero in Francia, dove le “sale rurali”, così Oltralpe si chiamano quelle dei piccoli centri, ricevono dallo Stato un contributo fino al 90% del costo totale per il passaggio al digitale.
Le cifre sono sempre aride e noiose, ma parlano chiaro e non ammettono repliche. Soprattutto quando, come in questo caso, indicano che a pagare più degli altri è proprio il cinema di casa nostra, ridotto a uno stato comatoso, trincerato negli ultimi sussulti (non di orgoglio, ma di sopravvivenza) di una commedia tra il faresesco e il brillante, che, genere estremo e ultima linea di difesa, cerca di resistere a un assedio sempre più stringente, stritolato da una crisi economica dilagante che induce a tirare la cinghia, da una pirateria che la classe politica si guarda bene dal contrastare (come invece è successo in Francia), dalla mancanza di mercati esteri (se non si vince più un festival o se si è scartati sistematicamente dagli Oscar non ci si può illudere di vendere i nostri film su altre piazze), da ridotte disponibilità finanziarie (gli incentivi statali scenderanno da 76 a 74 milioni di euro), da interventi legislativi in grado di far fronte alla difficile situazione (basti pensare al “tax-credit”, meccanismo virtuoso che consente di detassare quel che si investe nel cinema e che il governo in carica non ha rinnovato).
Il cinema, e quello italiano in prima fila, è un po’ l’immagine di un cagnolino che ruota su sé stesso cercando di mordersi la coda. Perché gode pessima salute? Perché diminuiscono i consumi. E perché diminuiscono? Per via della crisi economica, per disaffezione del pubblico, per debolezza propria, perché ha perso smalto e vitalità, perché non ha più motivi d’attrazione, per la pirateria, per l’uso massiccio di altre tecnologie, ma anche perché ha mancato i grandi appuntamenti con la Storia, perché è distratto, insensibile, assente (non c’è stato un film che abbia saputo raccontare la fine delle ideologie), perché non ha saputo farsi interprete del suo tempo, perché ha perso le capacità profetiche che sanno far da guida e da stimolo al grande immaginario collettivo, perché si è smarrito nella minuta morsa del minimalismo. Perché la scuola lo ignora e non lo coltiva (siamo l’unico paese in Europa in cui non sia materia di insegnamento) lasciandolo in balia dei mercanti nel tempio. La legge sull’insegnanento del cinema nelle scuole la scrisse Giuseppe Bottai alla fine del Ventennio. Ma poi arrivò il 25 luglio e da allora nessuno si è premurato di ripescarla dal fondo di un cassetto. Triste dirlo, ma purtroppo è così.
Il fatto è che Bottai era un appassionato cinefilo. Chiunque può constatarlo andando su Google e cliccando alla voce Alfonso Sansone (uomo notoriamente di sinistra, produttore di Marco Ferreri, Carlo Lizzani e Citto Maselli): si imbatterà in un piacevole ricordo legato alle giovanili esperienze del Cineguf di Firenze negli anni ’30 e all’aiuto che quella sorta di cenacolo culturale riceveva continuamente dall’allora ministro dell’Educazione Nazionale. Questo per dire come oggi al cinema manchi un mentore, un mecenate capace di sostenerne le motivazioni più nobili e più autentiche, che vanno al di là di uno spirito di servizio verso uno strumento di comunicazione considerato strategico per l’economia nazionale. Attualmente la classe politica non nutre alcun interesse nei confronti del cinema se non per un minimo tornaconto clientelare che, ripagando al disotto della sufficienza, non merita di dedicargli troppo tempo ed energie. E tanto basta a spiegare la sua condizione di trovatello. Che nessuno intende adottare.